Una strana rapina

by Editore | 7 Gennaio 2012 8:53

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Un tragitto probabilmente studiato e controllato dai rapinatori, forse tre, che avrebbero seguito la famiglia di Zhou Zeng dal bar gestito dalla moglie fino al portone di casa.
Questo è lo scenario dell’ultimo episodio, in ordine cronologico, di quella Roma criminale divenuta oggi il vero incubo della giunta Alemanno. Un contesto che pone non pochi dubbi sulla versione, fino a ieri data per certa, di una rapina finita male, forse per l’effetto di sostanza stupefacenti. Oggi i carabinieri della compagnia di Torpignattara mostravano prudenza sui moventi e sulla dinamica, non escludendo nessuna ipotesi: «Indaghiamo in ogni direzione», era la frase di rito degli investigatori.
L’unica novità  è il ritrovamento della borsa della mamma della piccola Joy, con all’interno diecimila euro in contanti. Una somma abbandonata dai rapinatori, forse subito dopo la fuga. Un gesto abbastanza inspiegabile, se fosse confermato il movente della semplice rapina. Come incredibile e senza senso appare la violenza mostrata, la ferocia nel colpire una bambina di pochi mesi, sparando il colpo mortale verso la testa.
Zhou Zeng, l’uomo rimasto ucciso, amministrava un centro di trasferimento di soldi, uno dei tantissimi punti Western Union presenti a Torpignattara. Dal suo bancone partivano le rimesse dei migranti del quartiere verso i paesi di origine. Piccole somme, risparmiate dai salari decisamente miseri di lavoratori spesso al nero. Ogni sera, dopo la chiusura, Zhou Zeng passava a prendere la moglie – unica testimone rimasta in vita – che gestiva un bar all’angolo con la via Casilina. Dopo le 22 chiudevano la serranda, preparandosi a percorrere quei trecento metri che li dividevano dal piccolo appartamento, a pochi passi dalla chiesa del quartiere. Erano conosciuti, integrati, abitanti normali in un condominio qualsiasi. Di loro ricordavano il matrimonio, avvenuto qualche mese fa, con la sfarzo tipico della grande – e ricca – comunità  cinese di Roma. Nulla di più.
Davanti al portone d’ingresso della loro casa ieri decine di candele e di mazzi di fiori contornavano un semplice cartello, scritto in stampatello: «L’Italia si vergogna, anche Roma è morta». I biglietti attaccati ai fiori erano scritti, indifferentemente, in cinese e in italiano. Segno di quella integrazione che è il tratto fondamentale di questa zona della capitale, ai confini con il quartiere modaiolo del Pigneto. 
A pochi metri c’è l’altra faccia – sempre più prepotente – delle borgate romane, le bische. Bar dove si fa tardi a giocare a carte e dove non sai quanto vi sia di antico divertimento o di pesanti scommesse. E le immancabili file di slot machine, raggruppate a decine in locali privée o in veri e propri scantinati abbelliti e moderni, divenuti sale di scommesse. Questa sembra essere la vera economia dilagante nelle vie che costeggiano le strade consolari, che a raggiera portano verso l’estrema periferia romana. 
Nessuno può dire oggi se esistano fili che collegano l’agguato di mercoledì notte all’espansione micidiale delle cosche nella capitale. I pezzi di conversazione rubati nelle strade del Casilino non sono rassicuranti: «Se hai fatto qualcosa e ti devo sparare – spiegava una giovane signora a pochi passi dall’abitazione di Zhou Zeng – lo faccio alle gambe, mica ammazzo una bambina». Parole che ricordano come la morte della piccola Joy, aldilà  dei moventi, sia solo l’ultimo episodio un lunga scia di sangue, fatta di agguati e gambizzazioni, che puzza sempre di più di regolamenti di conti di una malavita ormai senza controllo. «Ma tu guarda, oggi hanno riparato anche il lampione – spiegava un vicino della famiglia cinese, davanti alle decine di candele – perché sapevano che c’erano le tv». Un’apparenza di presenza dello stato, un po’ di fumo negli occhi. Alemanno ora sa che i riflettori sono puntati su di lui e su una città  dove anche i migranti sono vittime e non carnefici, come raccontava in campagna elettorale.

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