Una memoria senza Storia
Siamo giunti oramai alla dodicesima ricorrenza del Giorno della Memoria. È quindi possibile un primo bilancio, non tanto nel merito delle iniziative che si sono corposamente susseguite da allora ad oggi quanto sulla sua funzione pubblica e, pertanto, sulle ricadute che si sono concretamente misurate nel corso del tempo. Tale bilancio si impone tanto più dal momento che il transito intergenerazionale fa sì che anche gli ultimi testimoni dell’epoca vadano scomparendo, consegnadoci ad un orizzonte dove le costruzioni di senso saranno attribuite solo alla rielaborazione e alla simbolizzazione di quei trascorsi attraverso la ricerca ma anche, e soprattutto, l’immaginazione collettiva. Alcuni libri, freschi di stampa, ci aiutano in tal senso. Il primo è quello di Valentina Pisanty, Abusi di memoria. Negare, sacralizzare, banalizzare la Shoah (Bruno Mondadori, pp. 160), la quale affronta di petto una serie di nodi di contesto: il negazionismo, la banalizzazione (così come la trivializzazione) e la «sacralizzazione» dello sterminio. Tutti e tre, sia pure con intensità , segni ed effetti distinti, sono forme diverse di un medesimo costrutto, quello che cristallizza ciò che è trascorso, consegnandolo ad un tempo senza storia, ovvero privo di un’attenzione agli accadimenti reali che non sia funzionale alla costruzione ideologica del discorso sul presente. Si tratta di radicalizzazioni che rispondono a dinamiche identitarie, oggi molto pronunciate, in aperta contrapposizione allo schema pedagogico ripetutamente evocato, soprattutto dalle istituzioni pubbliche, che vorrebbe la «memoria della Shoah» come ingrediente della coesione sociale.
Il dovere di ricordare
Il problema di fondo è quindi lo stabilire quale sia l’effettivo campo della memoria nella costruzione di un ethos condiviso che non si riduca alla «commemorazione solenne», alla «cerimonia rituale» così come alla «glorificazione di una qualche identità collettiva». Ma anche cosa implichi il fare di un evento storico così drastico il fondamento di una narrazione del presente. Tanto più in società , quelle europee come l’americana, in profondo mutamento culturale e sociale, dopo la fine del bipolarismo e l’avvio di un lungo periodo di crisi economica. I rischi intrinseci alla istituzionalizzazione sono evidenti, tanto più dal momento che la memoria è confusa con la storia (e viceversa). Nei confronti della prima abbondano aspettative ai limiti dell’inverosimile, suffragate dalla precettistica del «dovere di ricordare», quasi in prima persona, qualcosa che oramai quasi più nessuno può dire di avere vissuto. Il tutto si consuma in una sorta di capovolgimento dell’orizzonte, dove il racconto delle tragedie trascorse sembra sostituirsi al vuoto di aspettativa per il futuro.
In questi ultimi decenni abbiamo peraltro assistito ad un vero e proprio fenomeno di ipertrofia autobiografica, che ha messo in scena il testimone come garante, nella sua più assoluta soggettività , della veridicità del racconto sul passato. Data al processo Eichmann e a quelli di Francoforte, nei primi anni Sessanta, la progressiva affermazione della centralità del sovravvissuto nella costruzione di una «storia calda», empaticamente condivisibile (così come l’avrebbe poi riformulata Daniel Goldhagen) ed emotivamente coinvolgente, di contro al ricorso al pluralismo delle fonti ma anche al distacco dello storico come garanzia di obiettività (Lucy Dawidowicz, Raul Hilberg, Saul Friedlà¤nder e molti altri). L’esposizione del fatto storico alla comunicazione mediatica ha poi accentuato gli ingredienti manipolatori.
Il problema, nell’età dell’immagine, non è solo l’attendibilità del resoconto ma anche e soprattutto l’impatto che esso esercita sull’immaginazione sociale, orientando sensibilità e corroborando atteggiamenti che si riflettono poi sulle scelte collettive. Interessanti riflessioni volte in tal senso ci sono offerte sia da Andrea Minuz con La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico (Bulzoni, pp. 222), che da Elena Pirazzoli, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alla caduta del muro di Berlino (Diabasis, pp. 180), due tra i migliori testi relativi alla costruzione di un immaginario condiviso della «catastrofe» in età contemporanea. A quest’ordine di riflessioni si è accompagna peraltro il riscontro della crescente incapacità di pensare all’evento Shoah in termini unitari, elemento che tanto più implicherebbe invece la cognizione del fatto che una tale tragedia storica non è mai la risultante della giustapposizione di una pluralità di fattori strettamente individuali bensì il prodotto di un campo di forze sociali e culturali che vanno identificate nel loro definirsi in quanto soggetti storici collettivi. Non è allora un caso se in Italia alla scoperta del continente Shoah si sia accompagnata una defascistizzazione del fascismo, emendato delle responsabilità peggiori, demandate al nazismo, «male assoluto» e altrui.
L’identificazione con il sofferente, come già rilevava Susan Sontag, non è peraltro necessariamente il segno di una comprensione delle dinamiche storiche e politiche della sofferenza, rinviando semmai ad una pluralità di motivazioni che a volte trascendono nello sguardo voyeristico, nel compiacimento generato dal kitsch (elemento, quest’ultimo, che è alla base dello stesso gusto nazista), nella seduttività della perversione e della barbarie, quanto meno in effige. È come se il reale si riducesse al simulato, ovvero al simulacro della realtà sia sufficiente, a tale riguardo, rinviare al tracciato del suo Davanti al dolore degli altri (Mondadori). Non di meno, lo statuto della vittima, ovvero la cogenza della memoria delle offese subite in quanto parte essenziale nella costruzione di un’identità di gruppo, attivata poi nella rivendicazione di uno spazio di autorappresentazione in ambito pubblico, ha accompagnato quel fenomeno variamente conosciuto come «americanizzazione della Shoah» (tra gli altri ne hanno parlato Annette Wieviorka e Peter Novick). Anche qui la dinamica comunitarista tende a riemergere prepotentemente, incontrandosi con la contrazione della socialità e con la logica della privatizzazione dei diritti, intesi essenzialmente come ambito nel quale si dà corso ad un risarcimento e non alla condivisione di un’esperienza comunicabile.
Pluralità della narrazione
Sul negazionismo, che è ingrediente dei tempi correnti, ritorna Donatella Di Cesare con Se Auschwitz è nulla (il Melangolo, pp. 125). Della negazione è colta la natura di agire politico che fonda non l’oblio ma un pieno di memoria artefatta, basata non solo sul resettamento della realtà fattuale ma anche e soprattutto sulla negazione del diritto alla vita delle vittime di allora come della storia del loro annientamento. Una prospettiva ulteriore, non alternativa a quelle già esistenti ma capace di consegnarci ad una visione ancora più articolata, è infine quella di genere, dove già Dalia Ofer, Lenore J. Witzman, Giovanna De Angelis, Anna Bravo ed altre ancora si erano impegnate nel recente passato. È uscito in questi giorni il volume di Lucille Eichengreen, Le donne e l’Olocausto (Marsilio, pp. 154, euro 14) dove a partire dalla sua esperienza di Auschwitz l’autrice dà corpo ad un’osservazione intensa sull’universo femminile nella vicenda concentrazionaria. Più che di memoria, quindi, parrebbe il caso di parlare di sguardi, da ricomporre nella pluralità della narrazione, non di un altrui passato ma del nostro presente.
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