Un mondo di eguali oltre i confini delle specie
Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà (Novalogos, pp. 240, euro 22), è radicale, e per questo motivo da prendere in considerazione: il problema dell’animalismo non è un problema ulteriore e secondario rispetto a quello della liberazione delle donne e degli uomini sfruttati dal capitalismo. Quando si pone il problema della condizione degli animali non umani nel sistema economico contemporaneo (ogni anno, ad esempio, ne vengono uccise diverse decine di miliardi per scopi industriali) arriva subito l’obiezione che si tratta soltanto di animali, e che prima di occuparci di loro è il caso di occuparci degli esseri umani. L’animalismo diventa così un problema che riguarda gruppi, per quanto molto attivi, del tutto marginali, affatto incapaci di incidere realmente sul meccanismo industriale dello sterminio degli animali non umani. C’è di peggio, in questo modo l’animalismo finisce per diventare una scelta etica individuale. Ora, come ci ha ben spiegato Marx, non è l’etica che cambia il mondo, bensì l’economia, non sono i processi mentali, bensì i rapporti sociali. Ecco, Marco Maurizi questa idea ce l’ha molto chiara: «la convinzione etica che non sfoci in una dimensione politica rimane a livello di “desiderio” e, con ciò, smentisce la propria aspirazione pratica al cambiamento della realtà ».
Il trionfo della merce
L’animalismo, allora, è un problema politico-economico, perché «l’uomo è un animale ridotto in schiavitù dalla stessa civiltà che ha assoggettato la natura non umana», ed in particolare gli animali non umani. Questo è il punto centrale di Al di là della natura: per Maurizi i fenomeni della schiavitù degli esseri umani (quella brutale e quella ipocrita mediata da qualche legge) e della schiavitù animale sono due facce di uno stesso dispositivo economico e ideologico. Un dispositivo che non si ferma di fronte a nulla, che trasforma qualunque entità (poche storie sono più ridicole, ai nostri tempi, di quelle che auspicano un capitalismo etico!), in intermediario del denaro, in mezzo per accrescere il valore del capitale. La posta in gioco, nel caso del corpo di chi lavora alla catena di montaggio o alla raccolta di pomodori, come di quei corpi che vengono direttamente inviati al macello è sempre la stessa: produrre valore, e la variabile dipendente non è il capitale, ma il corpo assoggettato al dispositivo capitalistico. Anche se il paragone fra il corpo umano e quello non umano può non piacere, sempre con corpi abbiamo a che fare. Corpi diversi, certamente, ché quello di Homo sapiens è diverso da quello di Sus scrofa domesticus, ma per un materialista sono comunque corpi, cioè entità naturali. La tesi di Maurizi è che perché «l’animale venga trattato come fine e non come mezzo» occorre «che l’uomo stesso sia trattato come fine».
Quello che va spezzato è un ordine economico-sociale che si basa sulla messa a profitto della natura, quindi dei corpi, e pertanto tanto di quello umano quanto di quello suino. Si ribalta, in questo modo, un radicato pregiudizio antropocentrico (e spesso anche filosofico): l’animale è sfruttato dall’uomo non perché è inferiore, al contrario, è considerato inferiore proprio perché lo sfruttiamo. E così la liberazione animale coincide con la liberazione umana, perché «solo quando l’uomo ha cominciato a rendere schiava la natura ha realizzato la ricchezza sociale necessaria a rendere schiavo l’uomo».
Il difficile, però, viene ora. Il punto di arrivo di questo percorso è «il ritorno dall’uomo alla natura». Maurizi non propone, come molti teorici contemporanei, una qualche forma di decrescita felice, un ritorno a una condizione originaria in cui gli umani avrebbero convissuto pacificamente con il resto del mondo vivente. Un’epoca del genere, ammesso che sia mai esistita, è oggi improponibile, anche perché nessuno accetterebbe una vita del genere. La proposta è molto più ambiziosa e paradossalmente più a portata di mano. Si tratta di partire proprio dal recupero della sempre rimossa animalità dell’umano, oltre quindi l’eterno dualismo di mente e corpo. Un’animalità , che qui vuol dire empatia e solidarietà con il resto del vivente, che non è perduta in un passato mitico, al contrario, è ancora tutta da conquistare e immaginare. Questo significa il passaggio dall’uomo, anzi, dall’Uomo, alla natura, e quindi a una visione finalmente non più gerarchica ed escludente del mondo vivente. Un’animalità di questo tipo presuppone una «uguaglianza universale», come anche una «pratica della cura, della dedizione all’altro» che può finalmente estendersi «oltre i confini di specie».
Una doppia presenza
Questo orizzonte presuppone il superamento di un ordinamento economico-politico che, al contrario, è costitutivamente basato sulla trasformazione della natura (Homo sapiens compreso) in merce, e quindi in semplice mezzo del continuo accrescersi e dislocarsi del capitale. Un’animalità allargata, che non esclude l’umano, ma lo accoglie al suo interno per toglierlo una volta per tutte dalla posizione di predominio: «una società umana liberata, se deve davvero costituire la soluzione della contraddizione uomo/natura e l’abbandono di ogni dualismo e spiritualismo, non può che configurarsi come società animale allargata». Qui sta la maggiore originalità di questo libro, cercare di uscire da una contrapposizione teorica e pratica ormai insopportabile: quella che oppone il materialista che vede nell’animale umano soltanto l’animale, e quella dello spiritualista che vi vede, invece, soltanto l’umano. La «società animale allargata» si può costruire solo se Homo sapiens si ricorda di essere, appunto, Homo (cioè un mammifero bipede), senza però dimenticare di essere anche sapiens: è suo il compito di portare la natura oltre sé stessa (perché gli animali, da soli, non se sono capaci, quello dell’armonia originaria del mondo vivente è un mito), perché solo a lui è naturalmente data «la possibilità di pensare la natura senza la propria presenza e, dunque, di concepire la propria esistenza come totalmente decentrata rispetto a sé».
È questa la sfida che pone questo libro, mettere finalmente la questione animale al centro del dibattito politico, e non solo di quello etico-giuridico: la questione animale come questione generale del rapporto non solo dell’uomo con la natura (ciò che è sempre stato chiaro, almeno al pensiero ambientalista), ma soprattutto del rapporto dell’uomo con sé stesso in quanto animale: «in effetti, non abbiamo ancora piena percezione di quale radicale stravolgimento del pensiero e della prassi implichi assumere l’ottica antispecista».
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