Un atipico anti-Obama

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NEW YORK – Tagli massici al budget della difesa, eliminazione dei sussidi governativi per le compagnie petrolifere, facilitazioni fiscali per chi sviluppa energie alternative, ritiro immediato di tutte le truppe in Iraq e Afghanistan, no all’intervento militare contro l’escaltion delle armi nuclear in Iran, alla politica dei droni nella guerra al terrore e alla tortura, ma sì alla legalizzazione federale della marijuana perché la guerra alla droga è stata un fallimento…..Se Occupy Wall Street avesse una piattaforma elettorale, includerebbe probabilmente tutti i punti qui elencati qui. Meno logico è che siano parte del programma di uno dei possibili vincitori del caucus per la nomination presidenziale repubblicana tenuto ieri in Iowa. 
Settantasei anni in gran parte spesi nei corridoi della politica washingtoniana, lo sguardo acceso che ricorda un po’ quello del Magneto di Ian McKellen in X-Men, un seguito di fedelissimi che è quasi culto, la reputazione di essere «onesto», alcuni tra gli spot tv più originali e aggressivi e una macchina organizzativa fatta di giovanissimi, basata su un uso creativo ed efficace di Internet, Ron Paul è forse il più improbabile tra gli aspiranti successori di Barack Obama alla Casa Bianca, ma anche quello più in sintonia con lo spirito del tempo. 
Insieme alle vedute radical-progressisiste che gli danno l’allure anti-establishment degli occupiers, la lunga carriera dell’ex deputato texano (sconfitto da Phil Gramm quando tentò il passaggio al senato, nel 1984, cercò la prima nominaton presidenziale quattro anni dopo come candidato del partito libertario, per poi ripresentarsi nuovamente tra i repubblicani, nel 2008) include alleanze pericolose con gruppi dichiaratemente razzisti e anti gay, manuali di sopravvivenza per miliziani in cui si sconsiglia l’uso regolare del telefono, e obbiettivi immediati come l’eliminazione delle imposte federali, degli aiuti a Israele e di parecchi ministeri: e tutto ciò lo rende a tutti gli effetti ineleggibile alla presidenza degli Stati Uniti. 
Da qui il completo disinteresse con cui i media istituzionali hanno documentato i primi sei mesi della sua corsa verso il 2012, riservandogli scarsa attenzione durante i dibattiti in Tv, invitandolo raramente ai talk show politici e non citandolo quasi mai. In uno schieramento repubblicano di impresentabili -tra le molestie sessuali del magnate della pizza Ronald Cain, i flirt con la nomination di Donald Trump e Chris Christie, le surge di Bachman, Gingrich e Santorum e il medio-basso continuo di Mitt Romney – Paul è il candidato di cui nessuno voleva parlare: l’assunto è che tanto non sarebbe andato da nessuna parte. L’invisibilità  della sua campagna su giornali e tg era tale che il «Daily Show» di Jon Stewart ha dedicato più sketch comici all’argomento, ospitando lo stesso Paul. Cosa che non ha fatto che rendere la sua candidatura «alternativa» più hip e accattivante. E, di fronte ai devastanti, opportunistici flip flop dei suoi avversari, a far apprezzare un certo rigore nella logica interna delle sue posizioni, nonostante la scarsa praticità  di alcune di esse sia ovvia.
Anche se oggi vincesse in Iowa (mentre scriviamo si parla di una battaglia a tre, tra lui, Romney e Santorum che incalza), difficilmente la campagna di Ron Paul potrà  contare su successi analoghi negli altri stati. Ed è sicuro che Paul non sarà  «incoronato» dal partito repubblicano alla convenzione di Tampa. Ma, nella sua atipicità  e su scala totalmente diversa, la sua candidatura è quella animata dalla spirito più simile all’ondata messianica che sostenne l’arrivo trionfale di Obama alla Casa Bianca quattro anni fa. Un altro precedente è l’entusiasmo attivista generato dalla candidatura di Howard Dean nelle prime fasi della battaglia per la nomination democratica del 2004. 
Con Obama alla Casa Bianca, il Tea Party al Congresso e Occupy Wall Street entrato a far parte della discorso quotidiano, Ron Paul è il vero candidato «movimentista» di questo ciclo elettorale. Il che è un avvenimento strano, spiegabile con la congiunzione tra la vena più arcaica e pura della tradizione libertaria Usa e la disillusione molto contemporanea nei confronti di un sistema politico/elettorale arrivato al capolinea. E’ per questo che, paradossalmente, un quasi ottantenne è il candidato «dei giovani». «Per vincere non è necessaria una maggioranza, basta una minoranza irata, decisa, e pronta ad appiccare fuoco al falò della libertà  che sta in ogni mente umana», è la classica dichiarazione biblica di Ron Paul (che in questo casa parafrasava Samuel Adams). Un po’ scienziato pazzo un po’ profeta, può permettersi di dire quello che vuole. Persino i suoi spot elettorali evitano l’immancabile iconografia alla Norman Rockwell a favore di un tono semi-apocalittico. Tutto ciò ne fa uno specchio/coscienza dell’America del 2012, allo stesso tempo interessantissimo e preoccupante


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