Tutte le bugie sull’art. 18

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In vista dell’annunciato confronto tra governo e organizzazioni sindacali sul mercato del lavoro, è iniziata la campagna tendente a dimostrare come i lavoratori tutelati dal famigerato art. 18 dello Statuto dei lavoratori siano una minoranza privilegiata, la cui esistenza sarebbe la causa primaria della diffusione della precarietà  giovanile. Sorvolando sul fatto che gli autori di questa campagna sono gli stessi che, criticando l’eccessiva rigidità  del mercato del lavoro italiano, a suo tempo pretesero l’introduzione massiccia di forme di lavoro atipico, vediamo come adesso stiano forzando i dati sull’occupazione, in senso inverso ma con il fine di sempre: allargare l’area della precarietà  e la ricattabilità  dei lavoratori. Esaminiamo alcuni assunti di questa campagna. È vero che i lavoratori a tempo determinato sono la maggioranza? Dai dati Istat sull’occupazione risulterebbe di no: gli occupati dipendenti a tempo indeterminato erano nel 2010 l’87,2% del totale e quelli a tempo determinato il 12,8%. È vero che i lavoratori ai quali si applica l’art. 18 sono la minoranza? Sempre dai dati Istat emerge che nelle aziende che occupano fino a 20 dipendenti sono occupati 4.574.000 dipendenti su un totale di 17.110.000. Anche aggiungendo tutti gli 800.000 collaboratori coordinati e 250.000 professionisti (non tutte queste figure sono assimilabili al lavoro dipendente: l’Istat li classifica nel lavoro autonomo), risulta evidente come la maggioranza dei lavoratori italiani siano tutelati dall’art. 18. Alcuni confondono i dati usando non il numero dei dipendenti ma quello degli addetti: questi ultimi comprendono i milioni di lavoratori autonomi che fanno più che raddoppiare l’occupazione globale delle piccole aziende, mentre lo Statuto fa riferimento a 15 dipendenti e non addetti. È vero che le aziende che ricorrono ai contratti di lavoro atipici lo fanno per evitare l’art. 18? Sempre dai dati Istat risulta che gli addetti (termine che indica, come già  scritto, anche i padroni e gli autonomi medi dell’industria sono 8,7, quelli delle imprese del commercio e alberghi 3,3, costruzioni 2,9 e 2,8 gli altri servizi (compresi quelli alla persona); ora, i lavoratori a tempo determinato presenti nell’industria sono 319.000, mentre quelli del totale dei servizi 1.464.000, di cui ben 974.000 nella categoria altri servizi (che comprendono quelli alla persona). Come si può ben intuire, la maggior parte dei contratti a tempo determinato sono nelle aziende che non applicano l’art. 18. È vero che si possono sostituire tutte le forme di lavoro precario con unico contratto di inserimento? Impossibile in diverse situazioni: nell’edilizia, che ha un’attività  estremamente discontinua e legata ai cantieri, nel turismo stagionale e nell’agricoltura, stagionale per definizione, solo per citare 3 grandi esempi. In questi settori è impossibile assumere tutti a tempo indeterminato, tant’è che esistono, per evitare di non trovare dipendenti, specifiche forme di sostegno al reddito. Esiste poi il complesso dei servizi alla persona in ambito familiare (circa un milione di addetti) e i contratti di formazione, come l’apprendistato che nessuno ha proposto di abolire. Le proposte in campo tese a limitare l’area di applicazione dell’art. 18 non porteranno pertanto che benefici marginali agli attuali occupati con contratti di lavoro a tempo determinato, soprattutto a quella parte che ha natura strutturale, mentre allargheranno l’area della precarietà  introducendo una ennesima nuova figura: il contratto di lavoro a tempo indeterminato in cui non si applica l’art. 18. Ovviamente siamo in presenza di un ossimoro: senza l’art. 18 ogni contratto può trasformarsi con molta più facilità  d’oggi in un contratto a tempo determinato. La verità  è che l’ampia flessibilità  del mercato del lavoro italiano, determinata in primis dall’ampia diffusione del lavoro autonomo e del lavoro nero, è causata dal ritardo del capitalismo italiano nei confronti degli altri paesi europei (Germania innanzitutto) e determina il differenziale di produttività  che si è accumulato in questi anni. Ma questo blocco sociale arretrato è parte integrante del blocco dominante: quindi intoccabile per ragioni politiche e allora non resta che tirare il collo agli operai nella speranza (vana) di recuperare margini di profitto.


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