Tracce vitali di sponda in sponda

by Editore | 25 Gennaio 2012 8:07

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Certo, nemmeno a questa fanciulla era concessa all’inizio una vita facile, ma ala fine la ragazza ci lasciava, per sempre contenta, affiancata dal principe salvatore. Era l’inizio dell’Ottocento quando la favola dei fratelli Grimm immortalava il dito della madre di Biancaneve come sogno di maternità , ideale di bellezza e destino femminile «felice».
Da allora è passato un lungo tempo, e nell’Europa di oggi le favole legate alle dita hanno il sapore della scomparsa. Non più fanciulle nate dai sogni, ma corpi di donne e uomini da riportare al primo paese d’arrivo o da espellere nei paesi d’origine. Che abbiano un nome non importa, che attendano un principe o una principessa neanche, tanto per loro non si prevede un destino felice e qualcuno che li salverà . Se poi si salveranno sarà  per loro stessa iniziativa: anche questo un intervento sulle dita, ma per bruciarle o tagliarle, per renderle irriconoscibili e sottrarsi ai sistemi di cattura che vorrebbero rigettarli altrove. È il sistema Eurodac, operativo dal gennaio 2003, voluto dagli «scrittori» che creano le politiche dell’Unione europea e con esse quelle relative alle migrazioni. Serve ad appagare la loro ossessione, impronte ovunque, trasmesse con massima velocità  alla banca dati centrale, da affiancare alle impronte rilevate dal sistema Vis (Visa Information System) e dal vecchio Sis (Schengen Information System), poi rinnovato nel 2008 (SIS II), per oggetti e persone, «cittadini di paesi terzi» come il regolamento specifica definendo unicamente con i tratti del «non» tutte le persone appartenenti a questa categoria. Così, mentre in Sis II compaiono impronte di «non», e insieme ad esse nomi e cognomi, eventuali «alias», segni fisici particolari e altre indicazioni sulle persone che hanno l’onore di comparirvi per salvaguardare la «sicurezza» dello spazio europeo, Eurodac scarnifica ulteriormente la possibilità  di un racconto e di fanciulle e fanciulli che abbiano compiuto i 14 anni età  rileva solo sesso e impronte. Gli altri dati sono informazioni tra stati membri. Persone impronte, che si prevede rimangano tali per ben dieci anni, sono quelle che nascono non volute da quest’archivio.
Capita, però, che quelle impronte fossero, prima, fanciulli e fanciulle partoriti dalle loro madri, e che alcune di queste madri chiedano conto agli «scrittori» europei della vita dei loro figli. La richiesta ha avuto un tempo lungo di gestazione, più di otto mesi durante i quali quelle donne continuavano a dire i nomi dei figli, la loro età , il luogo di partenza, tralasciando le impronte e diffondendo nello spazio occupato dalle loro manifestazioni – oltre al loro desiderio di vita dei propri figli – le vite dei loro figli. Sono donne tunisine, i cui figli, per lo più maschi e giovani, mentre erano ancora soggetti e non solo impronte avevano agito il loro desiderio di libertà , appena conquistata dopo la rivoluzione, come libertà  di movimento. Se sono arrivati nello spazio italiano e europeo, di loro resta un’impronta digitale. Chiederne conto ai raccoglitori ossessionati dalle dita e indifferenti alle vite, è l’unico modo in cui dalle dita potrebbero rinascere vite, o morti, eventualmente, di cui poter fare il lutto ricordandoli come figli, con i loro nomi, i loro desideri, i loro affetti. Una rivoluzione carsica, perché è la pretesa che il proprio desiderio di vita conti da una sponda all’altra, incurante dei falsi bisogni di sicurezza che pervadono lo spazio europeo.
«Qui e lì sono la stessa cosa», avevano detto i migranti tunisini prendendo una barca per arrivare in Europa, lacerando così l’infinita distanza che le politiche europee di governo e di controllo della migrazioni avevano tracciato tra le due sponde del Mediterraneo con la complicità  dei vari dittatori nordafricani. «Qui e lì sono la stessa cosa» dicono ora queste donne tunisine, agendo a loro volta oltre lo spazio tunisino, facendo essere qui il loro desiderio di vita e pretendendo che i creatori di impronte lo rispettino. E suggerendo a tutte/i noi che da una sponda all’altra le vite devono contare.

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