Tra le macerie e i carri armati di Dera’a dove la Siria ha deciso di sfidare Assad

by Editore | 23 Gennaio 2012 9:11

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Le strade sono immerse nel silenzio guardingo che nasce dalla paura. La paura che la nera dama con la falce possa tornare. Troppo sangue è corso nella città  dove la rivolta siriana è iniziata, dieci mesi fa, per poter accettare a scatola chiusa il messaggio rassicurante delle autorità , secondo cui «la calma e l’ordine sono stati ristabiliti a Dera’a». In realtà , quello che ci circonda è il panorama militarizzato di un luogo su cui è passato lo spettro della guerra civile, prima di volare altrove nel paese. Legioni di uomini armati a presidio dei pochi palazzi pubblici rimasti intatti e dei molti che hanno subito l’assalto devastante della folla. Posti di blocco. Controlli. E, nei punti strategici, postazioni protette da sacchetti di sabbia dietro ai quali affiorano gli elmetti dei soldati avvolti nel fumo bianco di una stufa a legna su cui, nella mattinata gelida, viene fatta scaldare la teiera.
Questo è il prezzo della tesa calma che regna a Dera’a, città  di 350 mila abitanti a cento chilometri da Damasco e a tre dal confine con la Giordania, cresciuta in modo casuale, come certe capitali dell’abusivismo edilizio Mediterraneo, e nutrita dal denaro a intermittenza prodotto da un’agricoltura fertile ma, per definizione, poco redditizia, dai traffici alimentati da una frontiera che non è frontiera e dalle rimesse degli emigranti espatriati nella regione del Golfo.
Oggi è festa, non si lavora, ma dove è la gente, dove sono le famiglie, gli anziani, i bambini che potrebbero profittare della giornata di riposo e del bel tempo per prendere una boccata d’aria dopo essere stati forzati per settimane e mesi a barricarsi in casa mentre fuori infuriava la battaglia?
Il giardino davanti al Palazzo di Giustizia, ridotto a un rudere annerito dall’incendio appiccato dai dimostranti durante gli scontri dello scorso 17 aprile, è quasi deserto. Salvo un vecchio “spiccia faccende” seduto dietro la scrivania del suo ufficio all’aperto, su cui domina una mastodontica Olivetti, che sembra contemplare apparentemente senza tradire emozioni il colpo micidiale inflitto all’immagine dello Stato siriano, qui a Dera’a, quando, nei giorni caldi della protesta, oltre al Palazzo di Giustizia, anche il Municipio, la residenza del Governatore, la sede della tv di Stato, il comando centrale di polizia e tutti i commissariati, sono stati attaccati e dati alle fiamme.
Ma Dera’a non è soltanto l’arena in cui i protagonisti di una protesta destinata a dilagare, da un lato, e le forze di sicurezza, dall’altro, si sono scambiati i primi colpi di uno scontro diventato nel tempo sempre più cruento. Dopo i primi quattro morti alla manifestazione del 18 marzo, indetta per il rilascio di un gruppo di ragazzi appartenenti al clan degli Abazid, arrestati per aver tracciato una scritta contro il presidente Assad sul muro di una scuola, almeno altre 500 persone sono cadute a Dera’a per mano delle forze di sicurezza e delle milizie fedeli ad Assad (shabiha). Oltre 5500 in tutta la Siria, sostengono le Nazioni Unite. Molte di meno ribatte il governo di Damasco che, di contro, lamenta la perdita di più di 2000 tra soldati e uomini degli apparati.
Dera’a è anche lo sfondo su cui le due parti in conflitto hanno elaborato e “lanciato” le rispettive narrazioni a sostegno delle proprie ragioni: i dimostranti, accusando il regime di voler affogare nel sangue una legittima e pacifica protesta non dissimile per contenuti e rivendicazioni da quelle esplose, durante la primavera del 2011, in altri paesi arabi; il regime replicando all’opposizione che a seminare il caos erano (e sono) non pacifici manifestanti per la libertà , la democrazia e la dignità  umana, ma «bande terroriste armate» al servizio di una complotto internazionale ordito da alcune potenze straniere per sovvertire l’ordine costituito.
A sentire le parole del governatore Mohammed Khaled Hannus, chiamato nel pieno della bagarre a sostituire un predecessore sospettato di corruzione, i motivi che hanno provocato l’inesorabile scivolare della protesta siriana verso il caos (Hannus non osa pronunciare le parole «guerra civile»), non sono cambiate. «Sì, all’inizio c’è stata forse qualche protesta legittima a sfondo sociale, contro la disoccupazione, la corruzione, lo stato di certi servizi, ma poi sono subentrati i terroristi, gli agenti della cospirazione, i salafiti, i fondamentalisti scesi in piazza a seminare la discordia, uccidendo, sequestrando, vandalizzando…».
Gli Stati Uniti, Israele, con la collaborazione della Francia e di alcuni paesi arabi asserviti agli interessi occidentali, sarebbero gli architetti del Grande Complotto per «colpire l’alleanza strategica tra la Siria, l’Iran e la Resistenza» (parola, quest’ultima, con cui nel politichese mediorientale si allude alle milizie dell”Hezbollah, il partito di Dio filo-iraniano che, sulla contrapposizione a Israele, ha costruito la sua egemonia sulla scena politica libanese).
Fuori di retorica, la rivolta siriana non sarebbe altro che un nuovo capitolo dello scontro lungo oramai quasi mezzo secolo, tra la Siria degli Assad e lo schieramento guidato filo-occidentale dagli Stati Uniti e dallo stato ebraico, cui di recente si sono aggiunti l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo, che vagheggiano un nuovo ordine mediorientale impossibile da realizzarsi perdurando il ruolo antagonista dell’Iran e dei suoi alleati Siria e Hezbollah. E si può parlare di “Siria degli Assad” perché, ascoltando le parole del governatore, sembra di risentire gli argomenti adoperati dal presidente Hafez el Assad, padre di Bashar el Assad, l’attuale Rais, per giustificare la sanguinosa repressione della rivolta anti regime condotta a cavallo del 1980 dai Fratelli Musulmani, repressione culminata nel massacro di Hama del 1982. Anche allora si parlò di un complotto occidentale contro la Siria.
Impossibile trovare qui ad Dera’a, nel cuore del potere locale, riscontro alle denunce dell’opposizione a proposito di prigionieri sottoposti a torture, arresti di massa, prolungate detenzioni senza processo in tutto il paese. Il governatore si schermisce, a Dera’a, l’amnistia concessa da Assad per tacitare le proteste dell’Occidente, avrebbe spalancato le porte della prigione a 167 detenuti, ma sono usciti «quelli contro i quali non erano state raccolte prove sufficienti e quelli arrestati per reati minori», non i militanti sospettate di gravi reati, incendi, saccheggi, scontri a fuoco, e, naturalmente, non si sa quanti siano rimasti in prigione. «Sapete, quel numero cambia di giorno in giorno».
E tuttavia, si chiedono alcuni osservatori, a che serve annunciare misure come l’amnistia, o il promesso referendum previsto a Marzo per approvare la nuova Costituzione, o le elezioni libere e multipartitiche annunciate per Maggio, se poi le manifestazioni di protesta vengono brutalmente represse?
La calma carica di tensione che avvolge Dera’a sembra favorire, contrariamente a quanto succede a Homs o a Idlib, la missione di una pattuglia di nove osservatori della Lega Araba, ospiti nell’albergo “La Rosa bianca”, assieme al vertice dell’imponente schieramento di sicurezza dispiegato a Deraa. Attaccati dall’opposizione come una squadra di dilettanti inesperti nella difesa dei Diritti Umani, volata in Siria sostanzialmente per dare copertura alle malefatte del regime e permettere ad Assad di guadagnare tempo, ferocemente criticati anche dai supporter di Assad come un’inaccettabile ingerenza internazionale, gli osservatori arabi ricordano la manzoniana metafora dei vasi di coccio costretti a viaggiare tra vasi di ferro. Destinati ad andare in frantumi.
Ieri la Lega Araba, s’è riunita al Cairo per decidere se prolungare di un mese la missione degli osservatori o richiamarli. Di certo, la missione non è servita a fermare il bagno di sangue, ma sulla scena internazionale non c’è altro che possa riempire il vuoto di iniziative diplomatiche per risolvere la crisi siriana. Dunque, gli osservatori resteranno, anche se è difficile capire il senso della loro missione. Come si evince dal breve scambio che, tra mille resistenze, ci è stato concesso da uno di loro, un elegante signore in abito grigio chiaramente di origini nord-africane. 
Cosa avete visto, abbiamo chiesto, come riassumerebbe la vostra esperienza in queste settimane? Ci pensa a lungo, poi risponde: «Everything is right». Va tutto bene.

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