Tibetani in rivolta, il Sichuan in stato d’assedio

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PECHINO — Dopo le fiamme che da un anno a questa parte hanno avvolto almeno sedici monaci, ora gli scontri di strada, le pallottole, lo stato di assedio. Il Sichuan torna ad accendersi: o meglio, bruciano le contee autonome nell’ovest della provincia, abitate dai tibetani che già  nel 2008 avevano aderito alla grande rivolta partita da Lhasa. A dimostrazione che la brace lasciata dalle auto immolazioni nel nome della «libertà  da Pechino» ha continuato ad ardere, spingendo migliaia di seguaci del Dalai Lama a scendere nelle strade per confrontarsi con gli agenti in tenuta anti sommossa. Il bilancio è pesante. Pechino ha denunciato tre morti tra i tibetani mentre fonti dei ribelli parlano di almeno undici vittime e decine di feriti. Le autorità  centrali hanno ammesso l’uso di armi da fuoco da parte dei poliziotti, ma «solo perché sono stati oggetto di aggressione armata: 19 agenti sono rimasti feriti». Opposta la versione dei manifestanti: «Sono loro che sparano, non noi».
Impossibile avvicinarsi alle cittadine e ai villaggi che si sono sollevati: le autorità  hanno chiuso ogni via di comunicazione, tagliando anche telefoni ed Internet. Ufficialmente non si può viaggiare nell’ovest del Sichuan, tra verdissime montagne e vallate che aprono la strada verso il Tibet, perché «il ghiaccio ha reso pericolose le strade». La realtà  è che in questo freddo inverno, il fuoco della rivolta rischia di riportare la Cina nel caos. Certo non è un buon auspicio per l’inizio dell’anno del Dragone, il segno più fausto dello zodiaco tradizionale. A Ganzi, per esempio, lunedì scorso alcune migliaia di manifestanti hanno marciato verso il municipio cantando slogan contro «l’occupazione» del Tibet da parte dei cinesi. I soldati avrebbero aperto il fuoco uccidendo tre persone. L’indomani, nuovo corteo spontaneo nella stessa cittadina: altri due morti. Pochi giorni più tardi, nella contea di Aba, un giovane tibetano ha affisso un poster con la propria foto e un testo che diceva, più o meno: «I monaci continueranno a darsi fuoco e morire fino a che il Tibet non sarà  libero». Il giovane invitava la polizia ad arrestarlo. Proprio quello che è successo due ore più tardi. Salvo che l’azione ha provocato un’immediata rivolta finita nel sangue: altri spari, altri morti. «La Cina deve affrontare alla radice le cause delle proteste: una repressione sempre più dura e una politica fallita verso la minoranza — ha detto Sharon Homs, direttore della Ong Human Rights in China —. I tibetani vogliono la demilitarizzazione della loro terra e il rispetto dei diritti fondamentali». 
La risposta di Pechino non è stata incoraggiante. Fonti locali raccontano di arresti nei monasteri e nelle case prima dell’alba, e obbligo di «rieducazione» per i monaci ribelli. Il timore: da episodi singoli, per quanto brutali e ad effetto — le auto immolazioni — i tibetani sono passati a una vera sollevazione popolare. «Il governo cinese, come sempre — ha detto Hong Lei, portavoce del ministero degli Esteri — combatterà  tutte le violazioni della legge e sarà  risoluto nel mantenere l’ordine sociale». Da New Delhi, Youdon Aukatsang, ha confermato all’Ap che Pechino ha paura di un «possibile movimento sotterraneo» capace di organizzare segretamente un’insurrezione in vista del Capodanno tibetano (22 febbraio). Di fatto ogni anno, intorno al 14 di marzo, anniversario della tragica rivolta del 2008 (22 morti ufficiali), il Tibet viene sigillato. Da Dharamsala, in India, dove il Dalai Lama vive in esilio dal 1959, non è arrivato alcun comunicato ufficiale. Nelle strade del Sichuan occidentale i tibetani si sentono sempre più soli e disperati.


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