Sullo Spiegel la ricerca dello storico tedesco Felix Bohr sull’eccidio di 335 italiani a Roma

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Non c’è stato solo l’armadio della vergogna, quello in cui la giustizia militare italiana seppellì le prove di tanti eccidi nazisti nel nostro Paese. Ora si scopre che anche il più brutale degli atti contro la popolazione civile perpetrati dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale fu coperto da un vergognoso patto “politico” tra le autorità  dei due Paesi tra la fine degli anni 50 e l’inizio dei 60. Lo Spiegel che esce oggi in Germania riferisce di una lunga e accuratissima ricerca condotta dallo storico Felix Bohr negli archivi dell’Auswà¤rtiges Amt, il ministero degli Esteri federale, dalla quale risulta che le diplomazie e le amministrazioni di Italia e Germania lavorarono insieme per sottrarre alla giustizia i responsabili della strage delle Fosse Ardeatine.
Per quell’orrenda rappresaglia, in cui furono uccisi 335 italiani, soltanto due tedeschi sono stati incriminati: il comandante della Gestapo a Roma Herbert Kappler, che poi fu aiutato a fuggire dal carcere, e, in tempi più recenti, il suo luogotenente Erich Priebke.
In realtà  almeno altri tre ufficiali nazisti, che avevano avuto responsabilità  precise e gravissime nell’eccidio, erano conosciuti e rintracciabili, ma vennero “risparmiati” in base a un accordo segreto tra Bonn e Roma. Si trattava di Carl-Theodor Schà¼tz, l’uomo che aveva comandato il plotone di esecuzione, che nel 1959, quando fu stipulato il patto, lavorava nei servizi segreti della Repubblica federale, di Kurt Winden, che aveva stilato con Kappler la lista degli ostaggi da fucilare ed era il responsabile dell’ufficio legale della Deutsche Bank a Francoforte e il graduato delle Ss Heinz Thunat.
Bohr ha ricostruito i fatti partendo da una relazione inviata a Bonn nel 1959 dal consigliere d’ambasciata tedesco a Roma Kurt von Tannstein, cui il passato di iscritto al partito nazista dal 1933 non aveva ompromesso la carriera diplomatica. Nel suo rapporto Tannstein scriveva apertamente che l’obiettivo «auspicato insieme da tedeschi e italiani» era di «addormentare» le indagini sulla strage.
I COLLOQUI RISERVATI
La prova di questa volontà  era nel colloquio (anch’esso ricostruito da Bohr) avvenuto nell’ottobre del ’58 tra l’ambasciatore Manfred Klaiber e il capo della Procura militare di Roma, colonnello Massimo Tringali. Questi – risulta agli atti dell’Aa – avrebbe «espresso l’opinione che da parte italiana non c’è alcun interesse a portare nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica il problema della fucilazione di ostaggi italiani, in particolare di quelli delle Fosse Ardeatine». Il motivo di questo «disinteresse» era di natura tutta politica. Il governo italiano dell’epoca riteneva che rivangare l’eccidio avrebbe favorito la «propaganda comunista» e che sarebbe stato un precedente pericoloso per Roma, che era oggetto di varie richieste di estradizioni di criminali di guerra italiani, specialmente da parte della Jugoslavia. Il più famoso era il generale Mario Roatta, autore di ferocissime repressioni, «da attuare senza false pietà », in Croazia e in Slovenia.
L’ambasciatore Klaiber, anch’egli ex iscritto al partito nazista, aveva scritto per il ministero degli Esteri di Bonn una nota in cui appoggiava la «ragionevole posizione italiana» e invitava a sostenere la tesi secondo cui non sarebbe stato possibile rintracciare il luogo di residenza dei responsabili, ammesso che «fossero ancora in vita». In realtà  Schà¼tz, Winden e Thunat erano non solo vivi, vegeti e nient’affatto pentiti, ma erano anche perfettamente rintracciabili: il primo era addirittura un dirigente dei servizi segreti federali. Le autorità  italiane finsero di credere a questa «impossibilità ». Diciotto anni dopo l’unico responsabile nelle mani della giustizia italiana, Herbert Kappler, fu fatto fuggire dall’ospedale militare del Celio


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