Su Obama lo spettro della guerra all’Iran

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Un anno fa infatti Obama veniva dalla sonora batosta subita nelle elezioni di metà  mandato, in cui i repubblicani avevano conquistato una netta maggioranza alla Camera (242 rappresentanti contro 192), e al Senato il partito del presidente aveva conservato solo un risicatissimo margine (51 a 47, più 2 indipendenti), per altro inutilizzabile. 
Infatti per le regole statunitensi sull’ostruzionismo, per approvare una legge c’è bisogno di una maggioranza di almeno 60 senatori. Per Obama si annunciava quindi un anno di diuturni scontri, impasse, bocconi amari e rospi salati: e così è andata per (quasi) tutto il 2011.
Il 2012 si apre invece su un tutt’altro registro. L’economia mostra (tenui) segni di ripresa e, soprattutto, il Grand Old Party (Gop) vive una lacerante crisi interna, come mostrano le tre primarie tenutesi finora e andate a tre candidati diversi: l’Iowa a Rick Santorum; il New Hampshire a Mitt Romney, e il South Carolina a Newt Gingrich, con un quarto candidato – Ron Paul – che raccoglie in tutti i tre stati consensi rilevanti.
Lo scontro fratricida e senza esclusione di colpi in seno ai repubblicani non può che rallegrare Obama perché in quest’infinita guerra di logoramento (le primarie finiranno il 28 giugno) i candidati del Gop stanno sfregiando la propria immagine pubblica; perché, nonostante il massiccio appoggio del gran capitale, le battaglie delle primarie rischiano di far spendere una buona fetta dei fondi raccolti, lasciando a disposizione un totale minore per novembre, mentre i democratici hanno già  un candidato nel presidente uscente, non tengono primarie e quindi Obama può conservare tutto il suo bottino di guerra per lo scontro decisivo.
Per di più, nella sua strategia di presentarsi come l’opzione più ragionevole, Obama è facilitato dalla deriva oltranzista dei vari candidati repubblicani, che cercarno di scavalcarsi ognuno più a destra per accreditarsi gli occhi del Tea Party. Così ha avuto buon gioco Obama ieri sera nel presentarsi, soprattutto in economia, come l’uomo che ha salvato l’Unione dal disastro e dalla bancarotta e che la sta guidando, contro maree e venti repubblicani, verso una rotta più tranquilla.
Né ha dimenticato Obama di sottolineare il suo più grande successo d’immagine dello scorso anno, e cioè l’uccisione di Osama bin Laden: da sempre infatti i repubblicani insistono sull’«imbellità » dei democratici: secondo la vulgata Gop, quando si viene a questioni di vita o di morte per gli Usa, non si può fare affidamento sui democratici. E Obama ha avuto buon gioco nel notare come lui sia riuscito a fare in meno di due anni quel che a George Bush jr. e a Dick Cheney non era riuscito in sette anni.
Tutto bene quindi? Calma e sangue freddo, rispondono i consiglieri più stretti del presidente. In primo luogo perché tante cose possono accadere, intanto sul fronte dell’economia: nessuno ignora che la ripresa Usa può essere colpita e affondata da un’implosione dell’euro. E poi c’è ancora la lontana possibilità  che alla Convention di Tampa i vertici del Gop tirino fuori a sorpresa un candidato più presentabile delle lamentevoli figure che ci hanno finora offerto in pasto, da lasciar approvare dai delegati (i quali non sono vincolati a votare per il candidato per cui sono stati «delegati»).
Ma soprattutto, Obama e i suoi temono di essere intrappolati nella questione iraniana. àŠ infatti evidente a tutti la valenza elettorale americana che ha preso il dibattito su un’azione militare contro l’Iran: non a caso la discussione su un attacco a Tehran è diventata pubblica solo negli ultimi due mesi. Su questo tema – come su parecchi altri – repubblicani e Israele viaggiano di conserva perché ambedue vogliono fuori dai piedi Obama (che Gerusalemme e la lobby ebraica negli Usa non hanno mai potuto digerire).
Se Gop e Israele riescono a configurare la situazione in modo che agli occhi dell’opinione pubblica sia impossibile per Obama non intervenire in Iran, essi ottengono un risultato in ogni caso: se Obama interviene, perde la faccia di fronte alla propria base pacifista che l’ha eletto per liberarsi della guerra in Iraq, e ora se ne troverebbe altre due in Afghanistan e in Iran. Se invece Obama rifiutasse di intervenire, questo diniego potrebbe essere usato per offuscare l’aureola eroica che gli deriva dall’eliminazione di bin Laden. Il rifiuto di cadere in questa trappola ha motivato la scorsa settiamana la decisione Usa di rinviare le manovre congiunte con Israele (le più grandi mai programmate) che dovevano simulare appunto un attacco all’Iran.

PS. Per di più la crisi iraniana fa volare il corso del greggio, così accresce i profitti dell’industria petrolifera che è tutta filo-repubblicana e quindi rimpolpa i fondi elettorali del Gop.


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