Stefano Levi Della Torre. “Vivere consapevolmente di illusioni ecco la lezione di Leopardi, mistico laico”

by Editore | 30 Gennaio 2012 6:12

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Il luogo d’incontro con Stefano Levi Della Torre non è irrilevante. Perché la passeggiata che precede la nostra conversazione, un lento periplo di questo fascinoso borgo del viterbese costruito sul tufo, raffigura plasticamente il senso del successivo periplo attorno all’inafferrabile quanto imprescindibile concetto di verità . E proprio un intellettuale irregolare come Levi Della Torre sembra essere la persona più indicata a compiere tale genere di esercizio. 
Leggendo le sue scarne note biografiche, si scopre che è pittore e docente a contratto della Facoltà  di Architettura di Milano. Ma prima ancora, direi, è un uomo che ama pensare, sempre pronto a indagare il lato rovescio di ogni questione. Una lezione, questa, che gli viene dalla sua origine ebraica e da una lunga frequentazione del Talmud. Dal quale ha anche imparato a praticare l’ironia e il paradosso, come si evince già  dal titolo del suo ultimo, acutissimo saggio in uscita per Einaudi: Laicità , grazie a Dio. 
Se è d’accordo, comincerei dall’idea di verità  che ci viene dal vocabolario, dove si afferma che «il vero» risponde alla «realtà  effettiva delle cose». Insomma, verità  e realtà  marciano di pari passo.
«Io direi così: la verità  è una realtà  orientata, dotata di senso. La realtà , di per sé, può apparire come qualcosa di inerte; è la verità  a offrirle orientamento. La verità , dunque, non è una semplice constatazione, anche perché in tal caso risulterebbe illusoriamente istantanea, mentre ha una pretesa di durata. 
La mia polemica con i postmodernisti nasce da qui: concentrano la loro attenzione esclusivamente sull’interpretazione, lasciando da parte la realtà . Ora, è del tutto evidente che noi umani siamo condannati all’interpretazione, ma su cosa gravita quell’interpretazione? Qual è il suo baricentro, se non la realtà ? Interpretazione di cosa, se non di fatti veri o presunti? Tutto questo per dire che possiamo sì volare liberi con le nostre interpretazioni e fantasie, ma restiamo comunque soggetti alla forza di gravità  dei fatti, che prima o poi ci chiedono il conto».
Potremmo dunque dire che, tanto per cambiare, la nostra ricchezza e la nostra povertà  sta nel linguaggio?
«Certamente, perché grazie ad esso facciamo in modo che la realtà  ci parli, ci dica delle cose, mentre per contro può anche accadere che un’interpretazione si spinga talmente in là  da sembrarci più reale della realtà . Finendo così nell’ideologia. E’ la questione affrontata da Andersen nella sua fiaba Il vestito nuovo dell’imperatore. Nella prima parte del racconto assistiamo al trionfo dei tessitori imbroglioni, che dicono di tessere un tessuto meraviglioso, ma invisibile. Mentre in realtà  non tessono nulla. Così l’imperatore si pavoneggia in mutande tra ali di una folla ammirata che inneggia al suo abito regale, non sentendosela di infrangere una credenza creata ad arte da una convenzione linguistica. Fino a quando interviene un bambino che dice la semplice verità : il re è nudo. Ecco, i postmoderni, affermando che non esistono i fatti ma soltanto le opinioni, si sono rassegnati alla realtà  del linguaggio, rinunciando al linguaggio della realtà ». 
Resta però che la verità  non si dà  mai una volta per tutte.
«E difatti Bloch, con estrema perspicacia, distingue tra conoscere e comprendere, in apparenza sinonimi, mentre nascondono una divaricazione. Perché il conoscere, cioè l’addentrarsi nello sconosciuto, ci mette in crisi, scombina le nostre conoscenze precedenti, mentre comprendere significa sistemare, fissare tutto dentro una cornice precisa. Un’operazione, beninteso, necessaria, ma allo stesso tempo rischiosa, perché indicativa di un meccanismo di autoconservazione. Questa del resto è l’inevitabile parabola di ogni ideologia, che nasce come istanza di liberazione, e poi invece, pian piano, si irrigidisce rendendosi indisponibile a nuove forme di conoscenza».
Nel suo libro ci sono pagine molto polemiche verso Richard Rorty, uno dei padri del postmodernismo. Ce ne spiega i motivi?
«Cosa fanno i pensatori come lui? Volendo contraddire le pretese autoritarie della verità , giungono a prediligere le pretese autoritarie dell’opinione. Niente di più confacente al populismo autoritario, al prevalere della propaganda sulla scienza. La verità  finisce per combaciare con ciò in cui si crede, diventa un atto di fede. Così questa caricatura della laicità  e del relativismo più radicale si trasforma in un’apoteosi dell’assoluto, nel miglior alleato del fondamentalismo religioso: ciascuno ha le proprie convinzioni e nessuno ha il diritto di interferire in esse. 
Per non parlare poi di quell’altra solenne sciocchezza in base alla quale non esisterebbe la natura umana, ma soltanto la cultura. Con la pretesa di combattere ogni potere – politico o religioso – che giustifica la sua presenza come se fosse dettata dalla natura, si finisce per escludere la natura dalla storia. Si finisce per dimenticare Darwin e per sposare inconsapevolmente l’idealismo, che, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. La concezione della storia come puro atto umano indipendente dalla natura mi ricorda la nostra percezione ingannevole delle città : vediamo le luci e ci dimentichiamo che sotto ci sono le fogne, dove scorre l’enorme flusso del metabolismo umano. Dietro la storia ci sono le sue materie prime, ci sono corpi che agiscono secondo i meccanismi ripetitivi e universali della natura umana. Negarlo è uno dei tanti modi per edulcorare la realtà , per ammansire la caoticità  del mondo».
Proviamo a riordinare le idee: la ricerca della verità  procede attraverso il dubbio, la lotta contro la censura, la credenza, l’edulcorazione della realtà …
«A questo punto, però, voglio ricordare un passo di Leopardi in cui si dice che ci sono dei filosofi talmente illusi da pensare che bisogna distruggere le illusioni. Straordinario, no? Ecco così che le cose si complicano ulteriormente. Perché non c’è niente da fare: anche il nostro desiderio di senso è in qualche modo falsificante. Il bambino, ad esempio, stabilisce che una certa pianta vuole bene a una certa pietra che vuole bene a un certo animale…. Questa teatralizzazione del mondo è fisiologica, attiene alla sopravvivenza umana. Ma appunto, è un’illusione. Del resto, volendo addentrarci ulteriormente nel labirinto: cos’è l’antropologia se non lo studio delle illusioni umane, le quali a loro volta rappresentano una concretissima realtà  sociale? Così il circolo ricomincia e ricomincia anche la nostra ricerca della verità ». 
Per questo lei afferma che non possiamo mai arrivare alle verità  ultime, definitive. Kafka affermava che siamo «abbagliati» dalla verità . «Vera è la luce sul volto che arretra con una smorfia, nient’altro». Ecco perché la verità  risulta inafferrabile, insondabile, abissale.
«E sono totalmente d’accordo con lui. Tant’è che, da laico, non obietto alla religione di essere troppo metafisica, ma di esserlo troppo poco. Perché pretende di dare un volto definitivo a quell’abisso. I veri, grandi mistici laici del moderno sono proprio Leopardi e Kafka. Perché accettano l’abisso e ci sprofondano dentro. Senza riempire il mistero di parole volte ad addomesticare quell’abisso, per addolcirne l’angoscia. Senza tradurre la vertigine dell’insondabile in liturgie consolatorie. Freud sosteneva che si investono più energie nel ripararsi dagli stimoli che nel riceverli. Ecco, le religioni costruiscono delle formidabili fantasmagorie proprio per incistare lo scandalo del caos, per dare senso alla realtà  e al contempo ripararsi da essa».
Mentre lei parlava, mi è venuto in mente un aforisma di Canetti che suona più o meno così: non si può tenere a guinzaglio la verità . La verità  è come un temporale che spazza l’aria e poi va via. Cosa ne pensa?
«Provo a risponderle riprendendo quanto dicevo all’inizio: la ricerca della verità  è la storia della nostra gravitazione verso la realtà , nello sforzo di dare ad essa un senso, riconoscendo però in questa ricerca tanto il tratto vitale quanto la sua necrosi, perché il senso è inevitabilmente transeunte. Ma la verità  opera anche in un altro modo, come vera e propria rivelazione. E accade allora che si finisca per coglierla con la coda dell’occhio, di straforo, quando un improvviso cortocircuito, una breccia si apre mettendo in subbuglio il nostro sistema codificato delle cose. Un po’ come con le due dita di Dio e Adamo dipinte da Michelangelo, che inaspettatamente si incontrano e producono una scossa: quanto era separato, ora, trova il suo nesso. Si è rotta una crosta e si è creato un nuovo contatto tra soggetto e realtà , magari impedito proprio dal precedente conferimento di senso, dalla precedente idea di verità , che è diventata essa stessa un’istanza di pregiudizio».

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