by Editore | 29 Gennaio 2012 3:50
Nel corso degli ultimi decenni le democrazie occidentali hanno adottato, secondo i casi, due regimi opposti di controllo del consenso: la tolleranza repressiva e la complicità mediatica. La prima si è manifestata in tattiche lassiste e permissive, tendenti ad annullare l’effetto dirompente e destabilizzante di quanto si presentava come trasgressivo e contestatore della situazione esistente, attraverso congiure del silenzio, insabbiamenti e le stesse autocensure degli autori. La seconda al contrario si è fondata sul valore mediatico e pubblicitario della provocazione, secondo la logica dell’economia politica dell’informazione e della comunicazione: lo scandalo giova sia al censore sia al censurato, quando essi appartengono a campi diversi (per esempio, l’uno al campo artistico e l’altro a quello religioso), secondo il principio “bene o male, purché se ne parli”. Tra questi due estremi sono state elaborate molte tattiche comunicative intermedie di carattere censorio: per esempio, i messaggi trasversali o il cosiddetto afghanistanism, parola del gergo giornalistico anglosassone che significa riferirsi a problemi o persone remote per evitare di attaccare direttamente i corrispettivi vicini. Del resto anche in Italia si dice comunemente: «Parlare alla nuora perché la suocera intenda».
Si ha tuttavia sempre più l’impressione che queste tattiche censorie basate entrambe su una finezza e una competenza retorica, che ha in Italia radici millenarie, non siano più efficaci come prima. Fatto sta che attraverso Internet chiunque può diventare un operatore della comunicazione con risultanti che vanno dall’intolleranza esagitata e oscurantista all’erudizione e allo specialismo iperaccademico: in entrambi i casi, ciò che spinge verso questi due estremi non è la passione della conoscenza e la volontà di dialogo, ma l’odio nel primo caso e l’invidia nel secondo. Ne risulta che i blog di Internet sono pieni di fanatici deliranti che si credono militanti della libertà di pensiero, e di esperti maniacali di un certo argomento o di un certo autore che intendono mostrare l’incompetenza degli specialisti riconosciuti ufficialmente come tali. Il risultato è la delegittimazione del professionismo e il trionfo del dilettantismo. Dato che queste sono anche le volontà del capitalismo populistico e anti-borghese, è chiaro che esso si trova impigliato in una contraddizione: da un lato deve farsi portatore della libera circolazione gratuita delle idee e delle produzioni culturali e sostenere la necessità di una valutazione popolare di queste (che per lo più si esprime in “mi piace”/”non mi piace), dall’altro diventa lui stesso bersaglio degli attacchi che provengono dalla rete, nonché vittima della pirateria informatica. Se volesse davvero “sorvegliare e punire”, distruggerebbe se stesso. È questa la “coscienza infelice” del dibattito attuale sulla censura: per adoperare una frase di Hegel, esso assomiglia ad «un litigio di ragazzi testardi, dei quali l’uno dice A quando l’altro dice B, per dire B quando l’altro dice A».
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