Siria, Assad parla in tv ma sul terreno la repressione infuria
Assad ha ancora molte carte da giocare, anche se il regime sembra essere sotto assedio, dall’interno ma pure dall’esterno. Asianews riporta la posizione della Turchia: “Il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, che ospita gli oppositori del regime siriano, ha dichiarato che “la situazione in Siria si dirige verso una guerra civile, confessionale e razziale e questo deve essere evitato” rivendicando al suo Paese un ruolo primario nella soluzione della crisi”.
Termini simili sono stati utilizzati anche da altri paesi della regione. Sembrano però parole al vento. La missione della Lega araba, cominciata il 26 dicembre con grande spolvero, risulta un fallimento in partenza. La violenza in questi giorni pare essere aumentata. Difficile avere informazioni certe, ma fonti dell’opposizione, frustrate dall’inadeguatezza delle azioni internazionali, minacciano di scatenare una vera e propria guerra civile.
Eppure si era sperato che l’intervento dell’organizzazione panaraba potesse sortire un effetto positivo. Per la prima volta la Lega araba, famosa per gli scontri verbali in diretta televisiva tra Gheddafi e i principi sauditi, assumeva una propria iniziativa in favore dei movimenti anti regime in Siria senza farsi scavalcare da altri protagonisti. Niente di tutto questo. L’otto gennaio, in un vertice d’emergenza convocato al Cairo, gli osservatori della Lega, di ritorno dalla Siria, non hanno fatto altro che registrare la situazione sul campo: la repressione continua, le vittime civili aumentano, il governo ostacola i tentativi di pacificazione. Alla fine il summit ha deciso di continuare la missione, anzi di rafforzarla: affermazioni che sanno di impotenza.
Eppure due giorni prima del vertice della Lega araba, Amnesty International chiedeva di fare urgentemente chiarezza: “ Amnesty possiede i nomi delle 134 persone uccise da quando è cominciata la missione degli osservatori, ma il numero attuale delle vittime potrebbe essere considerevolmente più alto. Molti di più sono stati arrestati per il loro reale o supposto coinvolgimento nel movimento per la riforma, mentre le autorità siriane hanno mancato la promessa del rilascio di migliaia di detenuti politici”.
Se il segretario della Lega araba Nabil al-Arabi ha parlato della scarcerazione di 3500 persone “nessuna lista di prigionieri rilasciati è stata resa pubblica e gli attivisti siriani hanno detto ad Amnesty International di essere convinti che il numero dei prigionieri rilasciati fosse molto più basso, aggiungendo che ulteriori centinaia di attivisti sono stati arrestati la scorsa settimana ad Aleppo, Latakia and Daraya”. Amnesty, citando fonti locali, denuncia il fatto che “i carri armati erano stati spostati solamente per la durata delle visite degli osservatori ma che i cecchini filogovernativi rimanevano in molte aree residenziali dove continuavano a minacciare chi protestava e quanti si stavano occupando dei loro affari quotidiani”. Infine, se i ripetuti appelli al regime di cessare la repressione dovessero continuare ad essere ignorati, l’organizzazione per i diritti umani chiede “Al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di riferire della situazione in Siria ai giudici della Corte Penale Internazionale, e nello stesso tempo di imporre un totaleembargo delle armi alla Siria e di congelare gli interessi del presidente Assad e di quanti sono responsabili di aver ordinato o perpetrato serie violazioni dei diritti umani”. Per ora nessuno ha accolto questo appello.
Ma cosa succede davvero dentro e fuori la Siria? Strani movimenti della flotta russa di stanza nel Mediterraneo ci suggeriscono che Mosca non voglia fungere di nuovo da spettatore passivo come è avvenuto con la Libia: questa volta Sarkozy dovrà limitarsi a fare la voce grossa tenendo negli hangar i suoi Mirage. È chiaro ormai che la crisi si è internazionalizzata, ma non nel senso che tutti auspicheremmo cioè di una presa di coscienza della necessità di un intervento (di pressione politica, forse anche militare senza però ripetere la guerra libica), ma come gioco strategico di posizionamento delle grandi potenze.
Libia e Siria però sono più unite di quello che comunemente si creda. Di Libia si parla ormai poco sui mezzi di informazione, soprattutto italiani. Ma i nuovi padroni di Tripoli hanno davvero molti problemi, uno dei quali è senza dubbio la presenza di milizie combattenti che devono assolutamente e in fretta essere integrate in un esercito “regolare” pena una pericolosa escalation di scontri tra bande rivali, già peraltro verificatisi il 3 gennaio nella capitale. Sembra però che questa soldataglia sia stata spedita direttamente in Siria per sostenere l’opposizione. Scrive il blog Geopoliticamente: “Già in novembre era stata segnalata la presenza in Siria di 600 combattenti libici, per stessa ammissione di Jalil. Sul posto c’è anche Mehdi al-Hatari, l’ex comandante della Brigata di Tripoli, molto vicino all’ormai celeberrimo ed enigmatico Abdelhakim Belhadj. Lo stesso Belhadj ha di recente incontrato i vertici del Free Syrian Army ad Istanbul e al confine tra Siria e Turchia, a testimonianza del sostegno offerto dalla Libia all’opposizione siriana. Benché i siriani neghino l’afflusso di “centinaia” di combattenti libici nel Paese, è ormai accertato che questi stanno fornendo armi, addestramento e uomini ai loro omologhi impegnati contro le forze di Assad”.
La strada per la soluzione del conflitto è ancora lontana.
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