by Sergio Segio | 27 Gennaio 2012 16:38
NEL CINQUANTENNALE della liberazione dei campi, Elie Wiesel e Jorge Sempràºn vennero invitati per un faccia a faccia dalla trasmissione televisiva francese Entretien – ARTE. Wiesel era stato deportato ad Auschwitz come ebreo, Sempràºn a Buchenwald come politico. L’incontro si concluse con parole abissali alle quali ancora oggi è difficile sottrarsi. «Io me lo immagino: un giorno o l’altro, tra qualche anno, poniamo, si troverà l’ultimo rimasto. L’ultimo sopravvissuto. […] Non vorrei essere al suo posto», disse Wiesel. Sempràºn annuì: «Penso a quell’uomo, a quella donna, se mai arrivasse a saperlo… Sì, perché in pratica non lo saprà mai. Immagina una troupe televisiva che arriva e comincia: “Signore, signora, lei è l’ultimo superstite”. Quello che fa? Si uccide». Wiesel scrollò la testa: «No, io preferisco pensare che verrà subissato di domande. Domande d’ogni genere. Tutte, proprio tutte. E lui le ascolterà , senza eccezioni. Dopodiché, tutto finirà con un’alzata di spalle. “E va bene”, diranno, “e con questo? ” E allora lui dirà …». Sempràºn lo interruppe: «Se non sarà il suicidio, sarà il silenzio. Il risultato non cambia». «È il silenzio fecondo», disse Wiesel, «l’ultimo. Non vorrei essere l’ultimo a sopravvivere». «E io nemmeno».
Sembra un dialogo di Beckett, eppure, a diciassette anni di distanza, i sopravvissuti non possono che guardare con crescente inquietudine a questa prospettiva; non solo perché, inevitabilmente, anno dopo anno la viva voce di qualcuno di loro si spegne, ma perché – nella sbrigatività con cui alcuni sembrano accompagnarli alla porta mentre altri li santificano, ostendendone nelle commemorazioni rituali la sempre più rarefatta presenza – si perpetua una solitudine e addirittura un’offesa. Non è facile parlare di questo argomento, nei convegni e negli incontri in cui si riflette sulla memoria e sull’insegnamento della Shoah: la compulsione a contrapporre conoscenza e sentimenti, storiografia ed empatia, scatta immediata. Il punto, però, è che non si tratta di scegliere tra la verità storica e il sentimentalismo, ma di porsi un’interrogazione pienamente politica: che società è, quella che non sa rispettare i testimoni del suo stesso precipizio, dello scacco della sua stessa cultura?
Ci interroghiamo sul testimone, ragioniamo sulla sua affidabilità , sul suo ripetere con le stesse parole la medesima storia, teorizziamo sullo statuto della testimonianza; ma chi siamo, noi, visti con gli occhi del testimone? Quest’anno, sia Goti Bauer che Liliana Segre, due fra le più importanti e attive testimoni italiane di Auschwitz, hanno deciso di diradare le loro uscite pubbliche e progressivamente smettere di testimoniare. «Non voglio correre il rischio di essere l’ultimo dei mohicani», ha detto Liliana Segre, mentre Goti Bauer ha parlato apertamente di una «delusione della testimonianza».
Sempre più, il testimone somiglia al vecchio marinaio di Coleridge evocato da Primo Levi; non già scacciato dal banchetto del matrimonio, ma seduto al posto d’onore, e tuttavia ingombrante, colmato di paternalistiche e sbrigative attenzioni. Non gli si impedisce di parlare, lo si sollecita, anzi, nei giorni deputati, ma il suo dire continua a non avere la gravità che Levi immaginava nelle notti del Lager.
La Shoah è stata istituzionalizzata, stilizzata, e su di essa è stato fondato un rito morale-politico che ne rende il pensiero estraneo agli uomini. Secondo Imre Kertész – sopravvissuto di Auschwitz, premio Nobel per la letteratura, e tuttavia anch’egli acutamente consapevole dell’«onda anomala della delusione» che si è abbattuta sui testimoni – si è creato «un conformismo dell’Olocausto, un sentimentalismo dell’Olocausto, un canone dell’Olocausto, un sistema di tabù dell’Olocausto, accompagnato da un mondo linguistico e religioso; sono stati creati i prodotti dell’Olocausto per il consumismo dell’Olocausto». Una subcultura, e persino un «kitsch dell’Olocausto». Perché «ritengo che sia kitsch quel tipo di rappresentazione che non è in grado, o non vuole, comprendere la relazione fondamentale tra la nostra deforme vita civile e privata e la possibilità dell’Olocausto; che estrania una volta per tutte l’Olocausto dalla natura umana e si impegna a escluderlo dalla cerchia delle esperienze umane».
In questi giorni di commemorazione si è molto parlato dei sopravvissuti come vittime, si è raccontato di case di accoglienza per dar loro sostegno, ma non si è mai nominata la loro signoria, il loro sapere qualcosa che noi ignoriamo, la loro doppia cittadinanza tra i vivi e tra i morti. Il testimone che ci guarda è il nostro specchio, l’inviato nell’avamposto più estremo: accogliere il suo verdetto può essere un salutare rovesciamento, l’ultimo invito a dubitare di alcuni dei mattoni con cui la nostra cultura ha edificato Auschwitz.
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