Sessanta mosse per evitare il baratro della crisi economica

by Editore | 28 Gennaio 2012 9:56

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Secondo i sociologi urbani militanti Peter Marcuse, Saskia Sassen e Mike Davis, non ci sono dubbi. Questo, appena uscito negli Usa, è uno dei libri che segnerà  il 2012. Si intitola Save the Humans? Common Preservation in Action (Boulder-London, Paradigm Publishers, pp. 246). Lo ha scritto Jeremy Brecher, documentarista, storico, attivista e autore di diversi classici inclusi, fra l’altro, Sciopero! (DeriveApprodi, 1999), la cui edizione originale nel 2012 compie quarant’anni, e Contro il capitale globale (Feltrinelli, 2002). In cinque sezioni e sessanta, serrati capitoletti Brecher vi ha distillato oltre mezzo secolo di attiva partecipazione alla scena pubblica statunitense e di relative lezioni di vita, frutto di una continua ricerca sui libri e fra la gente, nella militanza nei più diversi movimenti di base. Si possono salvare gli umani in un mondo che sembra destinato a rotolare verso il baratro della recessione e del disastro ecologico? Secondo Brecher, la risposta è sì. A patto, però, che la smettiamo con le pratiche autodistruttive.
Pratiche che Brecher, baby boomer doc del 1946, ha visto in atto sin da bambino. All’epoca imperversavano la guerra fredda e la minaccia di «mutua distruzione assicurata», come allora le due superpotenze Usa e Urss definivano la loro folle corsa agli armamenti nucleari. In effetti capita ogni tanto di vedere in tv un documentario sulle assurde esercitazioni che si svolgevano nelle scuole statunitensi nei primi anni Cinquanta per «allenare» i ragazzi di città  considerate «bersagli privilegiati» dell’atomica sovietica, quali New York, Los Angeles, Chicago e Detroit, a come cavarsela, in caso di attacco nucleare; attacco che la propaganda di entrambi i fronti dipingeva come sempre imminente. Senza alcun preavviso, di colpo l’insegnante gridava: «Giù!». Ed ecco l’intera classe, seguendo istruzioni martellate a lezione nei mesi precedenti, si gettava sotto il banco o dietro un qualsiasi altro riparo, in posizione fetale, con la testa ben stretta fra le gambe, le mani dietro il collo, la facci coperta. Brecher lo ricorda ancora oggi con emozione e stupore. Ma ricorda anche ciò che gli consentì, a soli nove anni, a metà  anni Cinquanta, di passare da quella posizione di supina accettazione delle cose alla condizione di uno che si fa delle domande e comincia a pensare a come uscirne. Decisivo fu il contatto diretto con alcune vittime di Hiroshima. 
Erano arrivate negli Stati Uniti attraverso una sottoscrizione condotta da un giornale progressista per essere sottoposte a chirurgia plastica. Due di loro, due ragazzini di nome Aka e Toyo, passarono un’estate con la famiglia Brecher, invitati dai genitori di Jeremy, giornalisti progressisti free lance, esperti di consumi e di sessuologia, legati a quella rivista. La frequentazione quotidiana con quei due ragazzi giapponesi devastati dalle radiazioni, la costruzione di un rapporto di amicizia «attraverso la magia che consentiva di superare qualunque barriera culturale e linguistica, cioè il ping pong» trasformarono, agli occhi del Brecher bambino, «l’orrore di una guerra nucleare» da «un’astrazione» in «qualcosa che avevo visto bruciare nella carne umana». 
La stessa combinazione di esperienza diretta e di improvvisa, rivelatrice riflessione personale riguarda la scoperta della questione razziale. A otto-nove anni Brecher viveva in un bel suburb di ceto medio in New Jersey, diviso da New York dal chilometro di meraviglia architettonica del George Washington Bridge. Più forte era tuttavia la barriera invisibile che separava il suo quartiere di bianchi relativamente benestanti dal ghetto nero di Leonia, nel quale un giorno si avventurò, bambino, per scoprire che, a un solo isolato da casa sua, c’erano baracche e povertà . Il padre, un ebreo di origine mitteleuropea che aveva perso buona parte della famiglia nei campi di concentramento per trovare tracce di antisemitismo anche nelle università  Usa, e la madre, una pacifista quacchera che non aveva seguito il consiglio del suo reazionario professore di Harvard di «lasciar perdere quell’ebreo» e se lo era sposato, lo aiutarono a capire, parlandogli del movimento nero per i diritti civili al Sud al quale loro stessi erano legati. 
La causa razziale sarebbe diventata, assieme a quella ecologista, a quella del lavoro e a quella internazionalista, il segnavia della vita, così ricca di cose, persone, relazioni, affetti, di Brecher, nella stagione dei movimenti degli anni sessanta e dopo. La lezione principale che si trae da Salvate gli umani?, che speriamo di vedere presto tradotto perché con tutti gli esseri «disumani» che ci circondano e decidono delle nostre vite ce n’è bisogno, consiste proprio in questo: mostrare che quelli che appaiono come guai e problemi irrisolvibili, se vissuti nel chiuso delle proprie vite, diventano questioni aspre, difficili, drammatiche, ma comprensibili e passibili di modificazione profonda e di risoluzione, se sottoposte al vaglio del confronto con gli altri, dell’elaborazione collettiva, del lavoro comune di movimento. «Il tentativo di autoconservazione miope, a spese degli altri – conclude Brecher – minaccia la sopravvivenza di tutti noi». Bisogna capire che la «conservazione di tutti è diventata la condizione per la sopravvivenza di ciascuno». Il 2012 sarà  l’anno buono?

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