Se non ora, quando?

by Editore | 4 Gennaio 2012 7:55

Loading

Il decreto “Salvaitalia” non salverà  l’Italia e il decreto “Crescitalia” non la farà  crescere. Sembra – quest’ultimo – il nome di un formaggio. Il sobrio Monti ha ereditato da Tremonti il gusto di sostituire espressioni consolatorie alla dura osticità  delle cose; com’era la famigerata “Robinhood tax”, nome che Tremonti aveva dato a due o tre cose diverse e mai realizzate; o «i conti sono stati messi in sicurezza» (e non lo sono): giaculatoria che Monti ha ripreso tal quale dal precedente ministro. È più probabile invece che da quei due decreti l’Italia esca ulteriormente depressa. Il paese non sta andando a nord-ovest (verso Bruxelles) come sostiene Monti; ma, per usare i suoi riferimenti logistici, a sud-est (verso la Grecia). Le misure adottate dal governo greco, prima e dopo il cambio della guardia, non l’hanno salvata da un primo default – anche se nessuno lo ha chiamato con il suo vero nome – e non la salveranno dal prossimo. E nessun economista serio vede come l’economia della Grecia, sottoposta a quella cura da cavallo, possa risollevarsi nel giro dei prossimi dieci e più anni. Ma l’Italia ha imboccato la stessa strada; che è poi quella “suggerita”, cioè imposta, dalla Bce. Quanto all’equità , questa sì, verrà  realizzata: equiparando al livello più basso lavoro fisso e precario e superando così «l’apartheid» che li divide (bella espressione, «apartheid»: come se i lavoratori a tempo indeterminato – e non i padroni, che in questi mesi li stanno mettendo entrambi sul lastrico a bizzeffe – avessero rinchiuso i precari dietro una cortina di filo spinato). Anche le “riforme” si faranno, dato che sia questo termine che “modernizzazione” vengono ormai usati solo per indicare la sottomissione totale dei lavoratori alle imprese; e di queste alle banche; e delle banche – con i buoni uffici dei governi e della Bce – alla finanza ombra che domina l’economia globale. Quanto al “rigore” tanto caro al governo, non è che il rigor mortis di una compagine che al carnevale berlusconiano ha sostituito la “sobrietà “, per continuare l’aggressione spietata contro chi lavora, chi è disoccupato, e chi lavora senza guadagnare; senza molto discostarsi da chi li ha preceduti. «Non ci occupiamo solo di questo», ha aggiunto Monti durante la conferenza stampa di fine anno, dato che aveva parlato solo di tassi, spread , debito, conti, bilanci, tagli, tasse. E ha precisato: «Sappiamo che gli uomini sono fatti di carne, ossa e…(“anima”, avrebbe detto qualcuno di voi; “spirito”, o “mente”, avrebbe pensato qualcun altro. No)… e denaro» ha concluso il premier. Ecco: per Monti siamo fatti di denaro (“carne e ossa” sono incidenti di percorso); e, ovviamente, ciascuno conta per il denaro che ha; di cui “è fatto”. Scava e scava: tutta la filosofia del liberismo, e soprattutto la sua “prassi”, finiscono lì. Prendete Draghi, che lavora in tandem con Monti – e con molti altri – alla salvezza dell’Italia e dell’euro; cioè di chi gli euro li detiene. Ne sta distribuendo miliardi alle banche a man bassa (come Ben Bernanke ha distribuito e continua a distribuire alle banche, anche europee, miliardi di dollari; spiegando che se fosse necessario glieli farebbe anche piovere addosso – alle banche; non ai comuni mortali – gettandoli da un elicottero). E perché? Per «metterle in salvo». E da chi? Da se stesse: dal fatto che hanno assunto, speculando, troppi rischi; sono piene di titoli tossici (in Italia, più provinciali, di immobili: di Ligresti, Zunino, don Verzé e compagnia); sono ingrassate con i titoli di Stato più redditizi, che ora perdono valore, e di cui non riescono a sbarazzarsi in tempo. E poi? Devono ancora decidere se piazzare quei miliardi in titoli di stato (magari al 7 per cento), o in crediti alle imprese (in Italia al 12-15 per cento), o prestandoli a chi specula in azioni, valute, materie prime o derrate alimentari (con guadagni ancora maggiori), avendoli presi in prestito all’1 per cento (con garanzia dei rispettivi Stati, a cui la Bce però non presta un euro perché sono “inaffidabili”). Nel frattempo quei miliardi se li tengono: anzi, li lasciano – in prestito, allo 0,25 per cento – alla Bce che glieli ha dati. Così le imprese soffocano, chiudono e licenziano; i governi annaspano sotto il peso degli spread e non possono spendere per sostenere redditi, servizi, riconversioni, ricerca, istruzione (o anche solo per offrire alle imprese in difficoltà  quelle “garanzie” che concedono alle banche, senza averle nemmeno per se stessi); e le banche possono continuare a nascondere il loro stato comatoso; e la “finanza ombra” ingrassa in attesa di sferrare i prossimi colpi. Queste vicende hanno qualcosa di surreale, ma alla generalità  degli economisti sembrano normali, o addirittura sagge. Perché c’è una logica in tutto questo: quella di “non disturbare il manovratore”: cioè l’alta finanza; perché si è accettato di essere completamente nelle sue mani: che non sono quelle di un demiurgo, né buono né malvagio; ma quelle di un meccanismo cieco e sordo che produrrà  un disastro: che in prospettiva – ma forse anche in tempi brevi – può essere il crollo dell’euro; e con esso dell’intera costruzione europea e forse dell’economia del pianeta. C’è un’alternativa a tutto questo? Certamente c’è; ma, per ora, non a livello di governo; né dalle elezioni potrebbe sortirne uno molto di diverso. Per ora l’alternativa c’è solo nella capacità  di condizionarne le scelte con una piattaforma condivisa e una adeguata mobilitazione sociale. Ma si deve partire da molto lontano. Innanzitutto dalla capacità  di mettere al centro le donne e gli uomini in “carne e ossa”; i nostri bisogni e le nostre aspirazioni; e, soprattutto, il rapporto costitutivo con il nostro prossimo – la solidarietà  non è un lusso né un optional – e con l’ambiente fisico in cui viviamo. E non, invece, il denaro – e chi lo possiede o lo controlla – come arbitro insindacabile delle nostre vite. Non è certo un caso che nella presentazione del suo governo Monti non abbia mai nominato l’ambiente; né la comunità  (a parte la “comunità  atlantica”). Come non è un caso che l’informazione e la discussione sulla crisi finanziaria abbiano completamente oscurato – per non dire azzerato – informazione e consapevolezza della crisi ambientale, ben più grave, e più carica di pericoli per noi e per le generazioni future, di quella finanziaria. Ma anche ciò che fornisce un filo conduttore: per affrontare i problemi economici a partire dai bisogni umani che l’economia non sa soddisfare; e, soprattutto, per non disperdere in produzioni e progetti senza prospettive, in castelli di carte, in “grandi opere” e nuovi disastri ambientali la dotazione e il potenziale di esperienze, di professionalità , di conoscenze, di impianti, di infrastrutture e di relazioni che questo scorcio di secolo ci lascia ancora a disposizione, prima che sopravvenga la grande notte delle tempeste climatiche. Costruire un’alternativa significa dunque mettere al centro la conversione ecologica dei nostri consumi, dei sistemi produttivi e del modo in cui gestiamo e amministriamo entrambi. Il che significa certamente declinarli entro la gamma di possibilità  che di volta in volta si dischiudono, rispettando – non se ne può fare a meno – i rapporti di forza esistenti. Ma senza sottostare aprioristicamente ai vincoli che l’attuale quadro economico e finanziario – che definisce anche il profilo politico e gli assetti sociali – sembra imporre. Guai a pensare che le attuali politiche adottate a livello nazionale ed europeo siano solo il frutto di una concezione errata dell’economia; e che un più corretto impianto teorico permetterebbe di correggerle. Certamente il liberismo è arrivato a una resa dei conti, a un suo disvelamento come estrema versione della patafisica : quella disciplina che il suo inventore, Alfred Jarry, aveva denominato «scienza delle soluzioni immaginarie». Il liberismo fornisce un quadro falsato e mitologico del mercato, dove quello che nella realtà  è l’incontro tra una formica e un elefante che “negoziano” su chi debba schiacciare l’altro sotto le proprie zampe viene spacciato per una libera contrattazione tra eguali. È incapace di auto-correggersi, perché per quanto evidenti siano i disastri provocati dalle privatizzazioni, li imputa sempre al fatto che non ne sono state fatte ancora abbastanza; e che bisogna privatizzare di più; magari vendendo la mamma o i propri organi. Propugna ricette per rimettere in pista la “crescita” che si riducono sempre e solo a tagli di reddito e occupazione per chi lavora; e mai di profitti. Ma dietro il velo di questa dottrina ormai screditata si nasconde la sostanza corposa di una subalternità  totale ai poteri della finanza. E non, o non solo, per comunanza di interessi, o per appartenenza sociale, o per connivenza con chi detiene le leve del potere (cose che certo non mancano; e a volte sono vistose). Ma per un vincolo culturale, che è ormai diventato mentale e costitutivo della vita quotidiana di tutti: quello secondo cui all’attuale assetto di potere e alle scadenze e alle soluzioni che esso impone “non c’è alternativa”. Questa tesi, di cui Margaret Thatcher è stata l’emblema, oggi si ripresenta come terrore della parola default . Che può voler dire tante cose: da una ristrutturazione del debito, come quello che Angela Merkel ha imposto alla Grecia, senza alcun beneficio, ahimé, per la sua popolazione, al ritorno a valute nazionali, se reso inevitabile dalla scomparsa dell’euro o da una crisi bancaria globale; passando ovviamente per cento soluzioni intermedie. Eventualità  del genere possono farci rabbrividire e paralizzarci. Oppure spingerci a costruire una via di uscita, facendo appello a esperienze e risorse cognitive oggi completamente escluse dal dibattito e dalla possibilità  di influire sulle decisioni. Tanto che per discutere proprio di queste cose molti hanno ritenuto necessario occupare le piazze, in Spagna come in America. Come faranno anche in Russia e in Nordafrica, non appena le condizioni lo renderanno possibile (in Italia per ora ci è andata male per via dell’esito funesto del 15 ottobre); o affiancare quel dibattito agli scontri quotidiani con la polizia, come in Grecia; o farne una rivoluzione pacifica, come in Irlanda.. L’importante è cominciare. E se non ora, quando?

Post Views: 204

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2012/01/se-non-ora-quando/