Rosarno, non è finita

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La domanda è: che ci fanno qui? Li chiamano clandestini e loro vogliono regole; sanno fare di tutto e sono costretti a raccogliere mandarini; leggono Tahar Ben Jelloun e ricevono lettere offensive. Quest’anno i contrasti sono più evidenti del solito, perché ci sono soprattutto quelli del Nord. Sono gli espulsi dalla crisi delle fabbriche, vittime della legge Bossi-Fini che ha collegato posto fisso e permesso di soggiorno. Sono africani che parlano con accenti “padani”. Sono quello che saremmo noi senza i residui di welfare e senza l’aiuto delle famiglie.
Prendete Ahmed. Lavorava a Cuneo. Oggi si trova sballottato in un pezzo di Calabria che non gli sembra neppure Italia. È esterrefatto, lui che viene da Casablanca, dall’assenza di regole. Era abituato a salari da 60 euro al giorno, contributi pagati, affitti in regola. Oggi, dopo una giornata a raccogliere le arance, gli danno una banconota da 20. E però gli chiedono 500 euro per una stanza: la cifra che paga uno studente a Roma. Ma l’affitto è un “privilegio” riservato ai regolari. Nessun proprietario rischia il carcere o il sequestro dell’immobile. Un appartamento “in centro” costa fino a 1400 euro al mese. Tanti soldi, troppi. Con un euro a cassetta (il compenso per il cottimo) non si possono pagare le spese e mandare soldi a casa, dal Western Union sempre affollato che si trova sulla “Nazionale”. Le soluzioni sono tre. Dividere un appartamento in tanti, con cento euro a testa te la cavi ma lo “spazio vitale” è ridottissimo. Oppure provare a ottenere un letto sul centinaio di posti disponibili al campo container fuori dal paese (sono già  tutti esauriti da tempo). Infine, dormire nei casolari e sperare che il freddo non ti uccida. E che alla polizia non venga voglia di fare uno sgombero a campione, come avveniva l’anno scorso.
Il lavoro “rosarnizzato”
Salari bassi e alto costo della vita, ecco le cause della povertà  estrema che colpisce tanto i giornalisti che arrivano qui e visitano i casolari come la Pomona o la Fabiana. Nessuno lo dice ma tanti lo pensano: sono poveri perché africani. Al loro paese stavano così. Aiutiamoli, come aiuteremmo i poveri del continente nero. E invece disoccupazione e leggi ingiuste sono gli stessi problemi che colpiscono i lavoratori italiani, che però non sono perseguitati da una legge che nega i documenti se non hai un contratto di lavoro. E possono contare ancora su un “paracadute”.
«Se non avessimo il sistema di protezione delle famiglie, anche noi dormiremmo sotto gli alberi», spiega Salvatore Lo Balbo, per anni nella segreteria nazionale della Flai Cgil. Mentre tutti continuano a chiedersi se Rosarno è cambiata (il titolo “Nulla è cambiato” è stato ossessivamente pubblicato in occasione del secondo anniversario della rivolta), si è “rosarnizzato” il lavoro italiano: paghe sempre più basse, condizioni sempre più precarie e l’abitudine di scaricare il disagio della crisi sul livello più basso delle varie filiere.
Tutto tranne l’essenziale
F. è una prova vivente dei deliri della burocrazia italiana. Ha in tasca il “libretto di lavoro per extracomunitari” della direzione del lavoro di Foggia, il libretto di idoneità  sanitaria della Ausl foggiana di San Severo, la carta di identità  e il codice fiscale. Gli manca il documento più importante: il permesso di soggiorno. Anni fa a Manfredonia fecero un controllo mentre lavorava, non era in regola e gli consegnarono un foglio di via. Da allora e per sempre è “clandestino”. Eppure ci dice: «Vogliamo pagare le tasse come gli italiani, invece siamo costretti a vivere in una casa abbandonata. Senza acqua, senza luce». 
Lavoravano nelle fabbriche di Treviso o nelle aziende agricole della Puglia, sanno stare alla catena di montaggio o guidare un trattore, cucinano piatti da ristorante parigino (il thieb yappe, riso con carne, di Boubakar è degno dell’alta cucina internazionale), parlano nella peggiore delle ipotesi tre lingue e sono da anni in Europa. Sembra uno scherzo del destino quello che li ha portati qui. Accanto a loro ci sono «quelli della Libia». Spaesati, confusi. Lavoravano anche loro, spesso con buone posizioni, nel paese arabo. Poi la guerra li ha spazzati via, stretti tra i fedeli di Gheddafi e i ribelli. Una barca direzione Lampedusa era l’unica via di fuga. Quando la salvezza sembrava raggiunta hanno conosciuto il sistema italiano di gestione di rifugiati. Tempi lunghi e tanti dinieghi. Avvocati che promettono ricorsi. Soldi da spendere, attese e alla fine una sola prospettiva di lavoro: la campagna. Rosarno è una parola che gira spesso tra migranti, d’inverno. «C’è lavoro quest’anno?», ci avevano chiesto due settimane fa tre africani ospitati a Caulonia, nei pressi di Riace. Vengono dal Ghana, dalla Somalia e dalla Liberia e attendono la risposta alla loro richiesta d’asilo. Come tanti, non vogliono stare senza fare niente. E prendono il treno che porta a Rosarno.
Festassemblea
Due anni fa i “fatti”, la rivolta dei neri, la reazione della popolazione locale, la fuga e la cacciata di un migliaio di uomini di colori in poche ore. Oggi nello spiazzo della “seconda area industriale” (ovviamente una distesa di capannoni abbandonati) si tiene una “festassemblea”, organizzata dall’associazione Equosud. In queste campagne stanno per arrivare 100mila metri cubi di calcestruzzo per un rigassificatore. Gli africani e i portuali in cassa integrazione, i giovani di “San Ferdinando in movimento” che si oppongono all’impianto inquinante e i piccoli produttori collegati ai gruppi di acquisto in tutta Italia hanno occupato simbolicamente per un giorno il terreno.
Le politiche nazionali «ricacciano tutti nelle campagne più interne, nei casolari dove si sta ancora peggio di prima, col terrore accresciuto d’incorrere per un controllo nei rigori della Bossi-Fini», spiega Equosud. «Rosarno è un’onta per tutta l’umanità , per l’Italia, per questo posto», dice Ibrahim in assemblea. Alla fine della giornata i manifestanti piantano simbolicamente alcuni alberi di arance. Interviene la polizia, manca l’autorizzazione. Siamo al confine tra il regno mafioso dei Piromalli e quello dei Pesce-Bellocco. A poca distanza dagli alberelli fuorilegge una colata di cemento è diventata una piccola pista abusiva per aeromodellismo. Un po’ più in là  un paio di discariche di piccoli cubetti di cemento. A due chilometri di distanza, sulle banchine del porto, le ‘ndrine fanno arrivare dall’America Latina le tonnellate di coca che invaderà  l’Europa, nascoste nei container, nei blocchi di marmo, nelle confezioni di frutta. Alla fine gli alberi saranno piantati, mentre due consiglieri comunali ci raccontano dell’ennesima minaccia contro l’assessore ai lavori pubblici, Teodoro De Maria. Nuovamente tagliate le piante di kiwi nei terreni di famiglia. La notizia è stata comunicata dall’amministrazione comunale in conferenza stampa. «Continueremo il lavoro avviato senza farci intimidire», ha detto il sindaco Elisabetta Tripodi.
Il pacchetto sicurezza
Paradossalmente, oggi quelli più sicuri sono gli africani. Nessuno li toccherebbe mai, dopo tutto quello che è successo. Saliamo a piedi dalla stazione a piazza Valarioti. Solo stranieri ai bordi delle strade: fanno la spesa, ricaricano i cellulari, chiacchierano tra loro. Fino a due anni fa era un incubo. Balordi col motorino e le mazze potevano colpirti per gioco, solo gli stranieri camminano a piedi. Oggi vediamo ragazzi col casco e la raccolta differenziata porta a porta. Una donna sindaco, una nuova amministrazione. Chi comanda oggi a Rosarno? «Noi», mi rispondono due consiglieri della maggioranza democraticamente eletta dopo due scioglimenti consecutivi per mafia, record italiano. Non sono tutti d’accordo. Dopo le retate contro i Pesce e i Bellocco potrebbe ridisegnarsi la geografia mafiosa. Stanno per arrivare imponenti fondi pubblici, dai milioni per i centri immigrati ai Pisu. Ma fossero anche pochi euro per un’aiuola, quello che conta sono i simboli. Chi imporrà  il suo volere allo Stato potrà  incoronarsi nuovo re di Rosarno.
«Conosci Bel Jelloun?», mi chiede Ahmed. Molti suoi compagni parlano francese, inglese, arabo. E’ strano sentirsi ignorante nelle campagne del sud dove tutti vedono degrado e miseria, ma è quello che succede confrontandosi con queste persone colte e intelligenti. E generose: K. è stato assunto in regola nell’ambito dei progetti di Equosud, ma non è contento: «I miei fratelli vengono sfruttati e lavorano in nero». È rimasta strana, Rosarno. Un gruppo di cittadini – rigorosamente anonimi – ha scritto alle autorità  lamentando che i neri «si riversano nelle strade della città , molte volte senza meta. E urinano di fronte alle bambine». È strano questo luogo dove la generosità  senza limiti del gruppo di Africalabria – da anni avanti e indietro nei ghetti a rispondere a tutti i bisogni – convive con deliri senza fondamento. E negozi di lusso accanto a baracchette, luci vicino al buio, palazzottotti autocostruiti e non finiti e locali di lusso, da grande città . La ricchezza è distribuita in maniera ineguale, come accade in genere al denaro sporco. E sarebbe rimasta così, ingiusta e ineguale, senza l’iniezione di lavoratori africani che ha avviato un percorso di speranza.

 

* www.terrelibere.org


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