Roma-Berlino: i Cinquanta «Veri» Spread

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ROMA — Domanda: fra «i fondamentali della nostra economia», che secondo il presidente del Consiglio Mario Monti non «giustificano uno spread così alto» fra i nostri Btp e i Bund, ci dobbiamo mettere anche i ritardi nei pagamenti dello Stato ai suoi fornitori? Perché se è così, visto che i tedeschi pagano in 35 giorni mentre noi ci mettiamo in media sei mesi, allora si capiscono tante cose.
E non soltanto a proposito di quel termine inglese diventato oggi così popolare nell’opinione pubblica come preoccupante termometro della differenza fra i tassi d’interesse dei titoli di Stato, ma sui tanti spread che ci allontanano ancora di più dalla Germania dai Bund che offrono ormai rendimenti sottozero. Per esempio, la pressione fiscale: di tre punti più bassa di quella che ogni italiano, mediamente del 22% meno ricco di ogni tedesco, aveva sulle spalle prima del decreto Monti. Per esempio, la spesa pubblica: cresciuta negli ultimi dieci anni, senza considerare gli interessi sul debito pubblico, a un ritmo triplo di quella tedesca che ha pure avuto il gravoso compito di ammortizzare la riunificazione con l’Est e le conseguenze, per loro certamente più gravi, della crisi finanziaria del 2008. Per esempio, il costo dei dipendenti pubblici: quello dei nostri rappresenta l’11,1% del Pil, quello dei loro il 7,9%. Per esempio, le tariffe dei servizi pubblici: aumentate in Italia, quest’anno, otto volte di più. Per esempio, il sequestro di articoli contraffatti: 262 ogni mille italiani, 29 ogni mille tedeschi.
Di questi «spread» l’ufficio studi della Confartigianato ne ha messi in fila addirittura 50. Con un bilancio tale da sovvertire una tradizione pedatoria che qualifica gli azzurri come la bestia nera della Germania. Qui perdiamo 50 a zero. E sono quei dati sconcertanti, secondo Cesare Fumagalli, che certificano l’abisso del rendimento fra Btp e Bund. Dice il segretario generale dell’associazione degli artigiani: «Vogliamo continuare a prendercela soltanto con i taxi? Benissimo. Vorrà  dire che a Roma e Milano ce ne sarà  qualcuno in più. Ma non possiamo fare finta di non vedere il resto. Che mentre in Italia le tariffe delle assicurazioni salgono di quasi il 5%, in Germania scendono dell’1,5%. Che qui l’energia è del 23% più cara. Che in Germania il costo dei servizi finanziari scende del 3,4% e in Italia, invece, sale del 2,6%. La verità  è che abbiamo condizioni completamente diverse e assolutamente sfavorevoli». Colpa della politica, colpa delle lobby o colpa di chi? Fumagalli fa l’esempio degli oneri che gravano sul sistema produttivo citando un caso preciso: «L’Inail è un monopolio assicurativo pubblico, nel senso che le imprese sono tenute a versargli obbligatoriamente i contributi per la copertura contro gli infortuni dei propri dipendenti. Ogni anno genera due miliardi e mezzo di entrate improprie per lo Stato: con quei soldi ci hanno perfino pagato le piscine per i mondiali di nuoto. Ed è perfino inutile sottolineare come senza quel monopolio le imprese potrebbero scegliere di stipulare polizze private a costi certamente più bassi. Se continuiamo a tenerci condizioni del genere, la distanza inevitabilmente è destinata ad aumentare».
Semplicemente impressionanti sono gli spread relativi al lavoro. E non soltanto per un tasso di disoccupazione ufficiale che sappiamo essere «bugiardo» per la gran quantità  di persone senza lavoro che non dichiarandosi tali non figurano nelle statistiche. Nel periodo della crisi, fra il secondo trimestre del 2008 e lo stesso periodo del 2011, il numero dei posti di lavoro è calato del 2%, contro un incremento del 3,7% in Germania. In Italia risulta occupato soltanto il 38% delle persone fra 55 e 64 anni, a fronte del 62,5% dei tedeschi della stessa fascia di età . Il che spiega in parte perché la nostra spesa pensionistica tocchi il 16% del Pil, mentre in Germania supera appena il 13%. Per non parlare dei giovani e delle donne. Il tasso di occupazione degli italiani fra 15 e 24 anni è del 20,5%; quello dei tedeschi è del 46,2%. In Italia i lavoratori sotto 30 anni di età  impegnati in percorsi di formazione sono il 7,5%, in Germania toccano il 38,3%. E bisogna considerare che la competitività , soprattutto in un momento storico nel quale è molto più facile perdere il posto, si gioca prevalentemente sulla capacità  di formare i lavoratori. Gli apprendisti tedeschi sono un milione 571.327, quelli italiani 592.029.
Andiamo ancora avanti? Le donne occupate in Italia sono il 46,1% del totale, valore più modesto dell’Unione Europea. In Germania, il 66,1%. Ma non meno sconcertante è il confronto sulla scolarizzazione. Basta dire che gli adulti (dai 25 ai 64 anni) italiani con un grado di istruzione che non va oltre le medie inferiori sono il 44,8%; quelli tedeschi il 14,2%.
E la burocrazia? Gli ostacoli burocratici si traducono in maggiori costi e tempi più lunghi, aumentando anche il rischio di corruzione. Non è un caso che le classifiche di Transparency International ci collochino al 69° posto, ben cinquantacinque posizioni sotto la Germania. Dove per ottenere una licenza di costruzione bastano 97 giorni, mentre nel nostro Paese ne sono necessari mediamente 258. A un prezzo, per giunta, quasi triplo. Mentre per avviare una qualsiasi attività  in Italia si spende cinque volte di più. Completare le procedure burocratiche di import-export richiede inoltre 38 giorni, contro 14 in Germania, e con un costo, calcolato sul container, del 36,7% superiore.
E se malauguratamente dovesse sorgere un contenzioso commerciale, fatevi il segno della croce. Per risolverlo, il tribunale civile italiano ci può impiegare 1.210 giorni, quello tedesco appena 394. Questo spread sarebbe sufficiente da solo a spiegare perché la Germania attira una quantità  di investimenti esteri enormemente maggiore dell’Italia. Senza considerare il divario sempre più profondo nel campo delle infrastrutture. Cominciando proprio da quelle per le tecnologie più avanzate. La connettività  Internet con banda larga nel territorio tedesco è superiore del 50% alla nostra. Del resto, il 37% dei cittadini dialoga via web con la pubblica amministrazione: in Italia ci si ferma al 17%.
La rete ferroviaria italiana è del 40% circa meno sviluppata di quella della Germania. Ovvio, quindi, che viaggi su ferro il 20,9% delle loro merci, a fronte di un misero 9% in Italia. Anche nel campo delle autostrade, dove fino agli anni Settanta vantavamo un primato europeo, siamo scivolati paurosamente indietro. Tanto più tenendo conto che abbiamo il più elevato numero di automobili del mondo in rapporto alla popolazione, con le uniche eccezioni dell’Islanda e del Principato di Monaco. In dieci anni la rete autostradale italiana si è incrementata del 2,3%: cinque volte meno di quella tedesca.


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