ROBERT MAPPLETHORPE

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Dalle polaroid dei primi anni Settanta agli still life, dai numerosi ritratti di artisti alla perturbante serie dedicata alla campionessa mondiale di body building Lisa Lyon, fino agli struggenti autoritratti scattati poco prima di morire, in cui la figura del teschio, simbolo tradizionale di vanitas, rammenta allo spettatore l’estrema fragilità  della condizione umana, la retrospettiva di Robert Mapplethorpe allestita fino al 9 aprile negli ampi spazi della Fondazione Forma di Milano si rivela un’occasione unica per approfondire il lavoro del grande fotografo americano scomparso ormai più di vent’anni fa, nel 1989. Attraverso più di centosettanta fotografie l’esposizione, proveniente dalla Robert Mapplethorpe Foundation di New York, ripercorre con grande efficacia e una impeccabile selezione delle opere la ricerca visiva di uno degli autori più rilevanti del panorama internazionale della seconda metà  del Novecento.
Estetica punk
Il percorso di Mapplethorpe prende avvio nella prima metà  degli anni Sessanta con l’iscrizione al Pratt Institute di Brooklyn, dove inizia a realizzare i primi collage polimaterici, nei quali incorpora tra l’altro ritagli e foto tratte da giornali e riviste. Alla fine del decennio risale l’incontro con Patti Smith, a cui rimarrà  sempre molto legato. Da questo intenso rapporto affettivo prendono vita celebri scatti che popolano tuttora l’immaginario visivo dei numerosissimi fan della cantante americana, considerata a buon diritto madrina e antesignana del punk. 
A Mapplethorpe si deve la foto di copertina dell’album di esordio Horses (1975), tra le più famose e incisive della storia del rock, inserita dalla rivista «Rolling Stone» nella lista delle cento migliori cover di tutti i tempi. Tra i due, allora entrambi giovanissimi, si instaura un legame profondo fatto di complicità  e sostegno reciproco, un’affinità  elettiva che traspare chiaramente in Horses, dove Patti Smith è ritratta come un’eroina antiborghese fortemente ambigua che, con la sua androginia, i capelli scompigliati e gli abiti maschili, sfida ruoli e convenzioni sociali. 
Per lo sfondo della foto Mapplethorpe sceglie la semplicità  di un muro bianco nell’appartamento del suo mecenate e amico Sam Wagstaff; l’abbigliamento della cantante, apparentemente casuale, è in realtà  studiato in ogni minimo dettaglio, dal completo di taglio maschile alle bretelle, per un’immagine carica di significati che diventerà  a breve un punto cardine dell’estetica punk. In mostra anche altri celebri ritratti di Patti Smith, tra cui l’enigmatica foto di copertina di Wave (1979), dove la cantante è ritratta con due colombe bianche posate sulle mani, mentre fissa con i grandi occhi spalancati lo spettatore.
Curve e spigoli
L’ambiguità  di tali immagini è un elemento nodale della ricerca fotografica di Mapplethorpe: i rituali sadomaso più violenti, al pari degli ieratici vasi di fiori, generano un senso di perfezione dovuto all’incontro di realtà  contropposte, eppure complementari. L’esasperato studio della forma – legato a una concezione della fotografia in netta antitesi rispetto alla ricerca del «momento decisivo» – congela volti, azioni, oggetti e persone per consegnarli intatti a un utopico ideale di immortalità , a un presente assoluto, dilatato all’infinito, capace di fagocitare passato e futuro.
Le foto di Mapplethorpe si muovono a ridosso dei generi, i suoi fiori sono insieme forme falliche e vagine schiuse, i suoi corpi un’alternanza di curve e spigoli, una costellazione altamente stilizzata di forme penetrate e penetranti. Il fascino dei ritratti di Lisa Lyon, realizzati a partire dal 1980 e confluiti nel volume Lady, Lisa Lyon (1983), scaturisce da un particolare misto di attrazione e repulsione generato dalla compresenza e dalla coesistenza di mascolino e femminino. Il corpo statuario della campionessa di body building incarna pienamente il mito della primordiale unione degli opposti, la ritrovata compresenza di entrambi i sessi in un unico individuo. Alla stessa esigenza di esprimere una sessualità  fluida, non più ancorata a generi e canoni stabiliti, rispondono i diversi autoritratti in cui Mapplethorpe si presenta con labbra e occhi vistosamente truccati, capelli cotonati, avvolto da un grande collo di pelliccia. Impossibile non pensare alla nota opera di Marcel Duchamp, che all’inizio degli anni Venti si fa ritrarre da Man Ray nei panni del suo alter ego femminile Rrose Sélavy, costituendo un importante precedente per le numerose pratiche performative incentrate sul travestimento e il cambio di identità  sviluppatesi durante tutto l’arco del Novecento, fino a oggi. Pratiche estetiche come quelle di Katarina Sieverding, Urs Là¼thi, Jà¼rgen Klauke, Andy Warhol e altri, basate sulla messa in crisi del tradizionale binomio uomo-donna, al fine di dare vita a un erotismo ibrido e non normativo. 
L’androginia, nel caso delle immagini di Mapplethorpe, non interessa soltanto la sfera sessuale ma investe più o meno apertamente tutti i soggetti ritratti, in cui elementi positivi e negativi si compenetrano, fino a creare esseri (oggetti, piante, persone) idealisticamente completi e autosufficienti. Non vi è dunque soluzione di continuità  tra le scene di bondage più spinto e gli still life più algidi: «Se guardo un pezzo di pane o un fiore oppure te, il mio sguardo non è diverso», sostiene Mapplethorpe in una lunga intervista realizzata da Janet Kardon, tradotta per la prima volta in italiano nel catalogo della mostra milanese, edito da Contrasto, a cura di Alessandra Mauro e Alessia Tagliaventi. 
La differenza tra le foto di S&M e quelle di papaveri o calle risiede semmai nel rapporto che Mapplethorpe instaura con i modelli. Un legame umano basato sulla fiducia, che si traduce in un profondo senso di dignità  del soggetto ritratto, anche nelle scene sadomaso più crude e sconcertanti. Il suo lavoro è interamente fondato sulla capacità  di trasmettere sicurezza e affidabilità , di far avvertire il suo pieno coinvolgimento nell’azione fotografica. Non vi è differenza alcuna tra il fotografo dietro l’obiettivo e i modelli che praticano atti estremi di bondage: Mapplethorpe è uno di loro e soprattutto è percepito come tale. 
«Altri fotografi», scrive Mapplethorpe, «la vedono in tutt’altro modo, ma il fatto è che, in quanto fotografo, collabori con il soggetto. Io sono solo la metà  dell’atto fotografico, se parliamo di ritrattistica, perciò tutto dipende dall’avere gente che si senta bene con se stessa e con il modo in cui ti ci rapporti. È allora che ne tiri fuori un momento magico. Nei ritratti fare la foto è solo metà  dell’opera: lavorare sulla propria personalità  fino al punto di riuscire a trattare con ogni tipo di persona, quella è l’altra metà ». La reciprocità  nel legame tra fotografo e modello si configura dunque come punto cardine della prassi artistica di Mapplethorpe: «Dal modo in cui i soggetti si danno all’obiettivo si capisce il rapporto paritario con l’altro. Non stanno facendo qualcosa per una foto, rispettano il fotografo». 
Soltanto a partire da una visione siffatta si può spiegare la capacità  di Mapplethorpe di creare ritratti indimenticabili, come quello della scultrice francese Louise Bourgeois (1982), ripresa mentre porta sottobraccio con estrema disinvoltura una sua opera a forma di fallo gigante. Ha oltre settant’anni, il volto rugoso, ma lo sguardo vispo e un po’ insolente di una bambina sorpresa subito dopo una birbanteria. 
Forse non è un caso che Mapplethorpe riesca a interpretare così magistralmente proprio la personalità  di una scultrice: «Se fossi nato un secolo o due fa, forse sarei stato scultore, ma la fotografia è un modo così immediato di vedere, di scolpire». Le sue immagini intrattengono difatti rapporti strettissimi con la scultura, i corpi possenti dei suoi modelli e modelle si trasformano in statue marmoree, in masse volumetricamente scolpite e dalla superficie riflettente. Nella tensione muscolare del nudo di Lysa Lion c’è un consapevole richiamo all’opera michelangiolesca. L’attrazione per il corpo, soprattutto per quello maschile, è sottoposta a un simultaneo processo di erotizzazione e distanziamento estetico, l’immagine con la sua traboccante carica sessuale è mediata e decantata dal filtro della scultura antica. L’iconografia classica diventa il modello a cui conformare la fisicità  del corpo in carne e ossa, alla ricerca di una bellezza ideale di winckelmanniana memoria. 
La ricerca del bello
Da qui nasce il forte interesse di Mapplethorpe per l’opera del barone Wilhelm von Gloeden (1856-1931), fotografo tedesco trasferitosi giovanissimo a Taormina, celebre per i suoi tableaux vivants fotografici di efebi abbigliati all’antica. Mapplethorpe non soltanto ne colleziona le stampe, ma gli rende omaggio citandolo apertamente in opere come Ajitto del 1981 o nell’autoritratto come fauno del 1985 (entrambe in mostra), rispettivamente ispirate al Caino e ai numerosi satiri gloedeniani. La ricerca estenuante della perfezione, del bello a ogni costo, di corpi glabri e statuari da ritrarre plasticamente, diventa il motore primo, l’impulso decisivo del paradigma fotografico di questi due autori: voluttuosamente carnale e dionisiaco Gloeden, ossessionato dalla purezza e dall’assolutizzazione della forma Mapplethorpe. 
Nel suo caso infatti il corpo diviene oggetto di una radicale trasfigurazione, resa possibile da rigorosi principi di geometrizzazione e iper-formalizzazione dell’immagine. Criteri mentali, prima ancora che visivi, capaci di generare un risoluto processo di astrazione della realtà , plasmata secondo le idee di un grande fotografo che scolpisce il proprio mondo attraverso l’uso di luci e ombre.


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