Rinviare le Olimpiadi di 4 Anni l’Idea Diplomatica del Governo
Chi apertamente non ci sta è il solo Umberto Bossi. Quando il consiglio generale del Coni ratificò un paio d’anni orsono la candidatura di Roma per i giochi olimpici del 2020, l’unico voto contrario fu quello del leghista Giuseppe Leoni, attualmente parlamentare leghista alla sesta legislatura ma soprattutto cofondatore del Carroccio, che dal 2002 è pure presidente dell’Aero Club d’Italia. Il suo urlo «Roma Ladrona!» risuonò nella sala, seguito dalla spiegazione tecnica dello stucchevole insulto: «Ora ci hanno rubato anche le Olimpiadi». Furto perpetrato ai danni di Venezia, che aveva aspirato invano alla candidatura. Pur di fargliela spuntare su Roma, il Senatur era arrivato a scomodare nientemeno che i combattenti della battaglia di Lepanto contro i Turchi: «Senza Venezia non ci sarebbe l’Europa, l’Occidente, forse neppure il cristianesimo». Dimenticando forse che l’ammiraglio della flotta era il romano Marcantonio Colonna. E quella sconfitta non l’ha mai digerita, al pari della pajata che ha dovuto trangugiare pochi mesi dopo in piazza a Roma per siglare una finta pace con il sindaco Gianni Alemanno, costretto a sua volta al supplizio della cassoeula.
Con la coesione che sempre li contraddistingue anche quando c’è di mezzo l’interesse nazionale, gli altri partiti sono tutti (o quasi) d’accordo, anche se ognuno per conto suo. Certo, la sinistra è favorevole: ma accusa Alemanno di voler utilizzare le Olimpiadi 2020 come trampolino per le elezioni comunali del 2013. Certo, se si eccettua l’ex ministro veneto Giancarlo Galan, il Pdl dice di appoggiare senza riserve il progetto: ma senza confondersi con il Pd. Certo, i dipietristi sembrano indifferenti: ma sostengono che non è il momento di sprecare i soldi.
E poi c’è il governo. La candidatura di Roma ha avuto (e ha) uno sponsor potentissimo nell’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, il quale è anche presidente d’onore del comitato promotore di Roma 2020. Scontato, dunque, che il precedente premier Silvio Berlusconi l’abbia benedetta senza riserve. Tanto più per le suggestioni che potrebbe evocare una riedizione dei giochi del boom. «Ci aspettiamo una ventata di sviluppo, come nel 1960», ha detto il Cavaliere un anno fa, evidentemente ricordando la sua promessa di «un nuovo miracolo economico» fatta agli italiani nell’ormai lontano 1994.
Il suo successore Mario Monti, pur consapevole di quanto l’occasione sia importante per l’Italia, sembra invece più preoccupato dei problemi che l’operazione Roma 2020 porta con sé. Tanto che non si può escludere la possibilità di una soluzione inedita: non un passo indietro, ma lo spostamento nel tempo del bersaglio. Candidando Roma, in realtà , per le Olimpiadi del 2024. In una data che cadrebbe proprio a ridosso del Giubileo del 2025, con il risultato di avere magari un impatto economico ancora più consistente, oltre a essere gradita al Vaticano (dove il governo Monti riscuote non pochi apprezzamenti).
Il governo sta vagliando attentamente tutti gli aspetti della situazione che si è venuta a creare. Delicatissima anche politicamente, visto che un dietrofront suonerebbe come una sconfessione di Letta, l’uomo che più si era speso per la candidatura romana. Colpendo di riflesso anche Berlusconi e il Pdl. Monti deve sciogliere il nodo per il 15 febbraio: entro quel giorno è prevista infatti la consegna della lettera di garanzia al Comitato olimpico internazionale. E di sicuro Letta non molla. Nei giorni scorsi l’ex sottosegretario di palazzo Chigi ha cercato anche una sponda nel presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
La lista dei problemi per le Olimpiadi del 2020, la cui sede sarà scelta il prossimo anno, comunque non è piccola. Intanto i soldi. È vero che la fidejussione che dovrà accompagnare la lettera di garanzia al Cio impegnerebbe le finanze pubbliche per appena 4 milioni di euro e che l’operazione non comincerà che nel 2015. Ma è il seguito che fa venire i brividi. La commissione di compatibilità finanziaria insediata dal governo Berlusconi e presieduta da Marco Fortis stima un impegno di spesa pari a 8,2 miliardi di euro, a fronte di 3,5 miliardi di incassi fra biglietti, sponsor, pubblicità e diritti televisivi. La differenza di 4,7 miliardi sarebbe pressoché interamente compensata da 4,6 miliardi di maggiori introiti fiscali. E se un Paese come l’Italia può permettersi di investire 100 milioni a fondo perduto per un’Olimpiade, otto miliardi e passa bisogna comunque anticiparli.
La coperta è cortissima, come dimostra la clamorosa decisione di definanziare il Ponte sullo Stretto di Messina davanti alla quale pressoché nessuno in Parlamento ha fatto una piega: nemmeno chi, in testa a tutti Berlusconi, ne aveva fatto una bandiera. Tanto corta che non sarebbe assurdo immaginare ripercussioni finanziarie su altri capitoli già aperti. Il riferimento è all’Expo 2015 di Milano.
Quando poi si parla dell’organizzazione di simili eventi, le difficoltà non sono soltanto finanziarie. La storia, almeno da Italia 90 in poi, ci ha regalato troppo spesso la fama di un Paese sprecone e poco affidabile. I mondiali di nuoto del 2009 sono passati alle cronache per le indagini giudiziarie sulla Cricca degli appalti e per i clamorosi ritardi nella realizzazione delle opere. Soltanto riutilizzando in extremis gli impianti del Foro Italico, quelli appunto delle Olimpiadi del 1960, si è evitata una figuraccia cosmica. La città dello sport di Tor Vergata progettata da Santiago Calatrava, che avrebbe dovuto ospitare la manifestazione, è ancora lì che aspetta di essere finita. Il rapporto della commissione Fortis dice che per quell’unico intervento sarebbero necessari 500 milioni. Poi restano da fare il villaggio olimpico, il velodromo, il bacino per il canottaggio… Per non parlare dello stato di congestione in cui versa la capitale. Una città con il maggior numero di automobili per abitante d’Italia, cioè del Paese che a sua volta ha il maggior numero di veicoli a motore del mondo in rapporto alla sua popolazione: eccezion fatta per l’Islanda e il Principato di Monaco.
Ma tutti questi sarebbero problemi risolvibili. Se però affrontati in modo serio, naturalmente. Il fatto è che alle questioni di natura tecnica e finanziaria si aggiungono altre controindicazioni connesse ai nostri rapporti internazionali.
Monti è ovviamente cosciente che in questo momento non sarebbe salutare entrare in rotta di collisione diplomatica con Paesi dai quali potrebbero venire aiuti decisivi per il superamento delle nostre attuali difficoltà . Per esempio la Germania, che ha in mano i destini dell’euro e anche per ragioni politiche interne ha tutto l’interesse a sostenere la candidatura di Istanbul. Nella Repubblica federale tedesca risiedono 2 milioni 800 mila turchi, oltre 500 mila dei quali hanno diritto al voto. E il prossimo anno in Germania ci sono le elezioni. Mettiamoci pure che la Turchia ha già dovuto rinunciare all’Expo 2015, per cui era stata candidata la città di Smirne sconfitta da Milano, e il quadro è completo.
Ma Istanbul ha dalla sua anche gli Stati Uniti, azionisti di riferimento di quel Fondo monetario internazionale al quale non è escluso che l’Italia debba in futuro far ricorso. Non fosse altro perché la Turchia è l’alleato più importante di Washington, anche sul piano militare visto che fa parte della Nato, in uno scacchiere infuocato come quello che va dalla Siria all’Iran.
In subordine c’è comunque Tokyo, che ha già ospitato le Olimpiadi nel 1964, edizione seguente a quella di Roma. Il Giappone è reduce dal devastante terremoto dello scorso anno e la prospettiva di organizzare i giochi olimpici del 2020 darebbe comunque una grossa mano. Ed è un elemento che potrebbe far pendere la bilancia a favore della capitale del Sol Levante.
Infine, Madrid. Il governo di Josè Luis Zapatero l’aveva già candidata per le Olimpiadi del 2016, ma poi la scelta del Cio era caduta su Rio de Janeiro. E ora gli spagnoli tornano alla carica con molte chance in più proprio grazie a quel precedente e a una reputazione di affidabilità che si portano dietro fin dalle Olimpiadi di Barcellona 1992, organizzate in modo impeccabile. C’è da dire che la Spagna condivide con l’Italia gli effetti più pesanti della crisi dell’euro. Quindi ha bisogno come noi di avere buoni rapporti tanto con la Germania quanto con gli Stati Uniti. Ma quando ci sono in ballo poste del genere gli spagnoli si muovono con una coesione che i nostri politici si sognano. Per capirci, in Spagna nessuno si sarebbe mai lontanamente immaginato, com’è invece accaduto in Italia, di mettere in contrapposizione le candidature di diverse città . Noi ne abbiamo tirate fuori addirittura tre: Roma, Venezia e Palermo. E la spiegazione del perché forse vinceranno loro è banalmente tutta qui.
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