by Editore | 24 Gennaio 2012 7:42
BRUXELLES – «No, non interverremo militarmente in Iran perché sono convinto che la migliore soluzione resti quella politica, quindi ben venga l’inasprimento delle sanzioni economiche da parte dell’Unione europea», dice il segretario generale della Nato ed ex premier danese, Anders Fogh Rasmussen. «Da quando, nel 1949, l’Alleanza fu creata per contenere eventuali mire espansionistiche del blocco sovietico, il suo ruolo è rimasto lo stesso: difendere i nostri Paesi e i nostri popoli. Ma oggi questa difesa comincia spesso ben al di là delle nostre frontiere. Per questo dobbiamo andare fino in Afghanistan per proteggerci dal terrorismo internazionale e in Libia per prevenire che l’instabilità nel Nord Africa contagi l’Europa».
Segretario generale, non crede che il programma nucleare iraniano possa mettere a repentaglio la nostra sicurezza? Non avete piani per intervenire nella regione?
«No, la Nato non ha nessuna intenzione di interferire con l’Iran. Penso che il modo migliore di agire sia quello di trovare soluzioni politiche e diplomatiche».
Eppure è da dieci anni che l’Occidente sta cercando di convincere Teheran ad abbandonare il suo sogno nucleare. Lei continua a credere che le sanzioni siano il modo migliore per far cambiare idea agli ayatollah?
«Sì, sono convinto che il rafforzamento delle sanzioni economiche avrà un impatto significativo sull’economia iraniana e anche sulla leadership iraniana. Tra le sanzioni e la soluzione militare io parteggio decisamente per le prime».
È quindi impensabile un vostro intervento in quella regione?
«Sì, da escludere totalmente».
Le sembra possibile un raid israeliano contro gli impianti iraniani potenzialmente più pericolosi? E con quali possibili ripercussioni?
«Al momento un raid israeliano è soltanto un’ipotesi. Preferisco perciò non rispondere a questa domanda».
Passiamo alla Siria. L’organizzazione Human rights watch sostiene che a Homs le forze governative stiano compiendo crimini contro l’umanità . Perché un’azione della Nato in quel contesto sembra tutt’altro che probabile?
«Non interverremo in Siria perché pensiamo che il conflitto debba essere risolto da attori locali. Anche se l’operato della Lega araba non ha ancora portato i suoi frutti sono certo la soluzione al problema la troveranno i Paesi di quella regione»
E allora perché siete intervenuti in Libia?
«Perché in Libia avevamo ricevuto un chiaro mandato da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu e un attivo sostegno da parte della regione. Niente di tutto questo esiste nel caso della Siria. Detto ciò, condanno con fermezza la repressione delle forze di sicurezza siriane nei confronti dei manifestanti».
Veniamo all’Afghanistan. Non le sembra giunto il momento, dieci anni dopo l’inizio della guerra, di cominciare a trattare seriamente con i Taliban?
«Sì, anche lì dobbiamo cercare una soluzione politica. Tuttavia, per il raggiungimento del successo, è necessario che ci siano le condizioni adatte e che siano gli afgani stessi ad avviare un processo di riconciliazione nazionale».
Secondo lei i Taliban non hanno nessuna possibilità di vincere la guerra?
«No, non al momento. Nel 2011 abbiamo per la prima volta registrato una diminuzione di quasi il dieci per cento del numero di attacchi dei Taliban. E i poliziotti e i soldati afgani sono in grado di garantire la sicurezza in metà del Paese».
Quanto sono costate le operazioni militari Nato in Libia?
«Non sono in grado di fornire una sola cifra perché ogni Paese che ha partecipato ha speso di tasca propria. Credo invece che sia stato un evento storico il fatto che il Consiglio di sicurezza ci abbia affidato l’incarico di proteggere la popolazione civile della Libia. È stata la prima risoluzione del genere adottata dell’Onu. E il fatto di aver raggiunto lo scopo della nostra missione è un risultato che non ha prezzo».
Che cosa vorrebbe chiedere il capo la Nato al nuovo ministro Difesa italiano, Giampaolo Di Paola?
«L’ammiraglio Di Paola lo conosco molto bene, il che facilita molto il nostro dialogo. E credo di non dovergli chiedere nulla, perché è nel suo Dna di volere che l’Italia rimanga il forte alleato che è sempre stato da quando la Nato fu fondata, più di sessant’anni fa».
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