Quell’avidità  senza più freni

by Editore | 26 Gennaio 2012 7:19

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Ogni regime che abbia una durata considerevole deve poggiare su una base di consenso sociale. Si può parlare di consenso passivo quando si manifesta nelle forme di una violenza repressa ma tollerata a causa della paura che suscita o del castigo divino che minaccia; e di consenso attivo quando procede da un sostegno convinto. Così è per il capitalismo: una formazione storica tanto dinamica e mutevole da chiedersi se le fasi che attraversa possano essere comprese in un concetto unitario.
Il capitalismo nasce da una transizione storica decisiva dai regimi sociali dell’antichità , caratterizzati da rapporti sociali garantiti dalla forza politica e militare a quelli della modernità  contraddistinti sempre più dalle relazioni di mercato: una transizione che si compie lentamente nel medioevo. Quella transizione è per lungo tempo ostacolata, in Occidente, dalla morale cristiana, in quanto si fonda su passioni incompatibili con i suoi principi, come l’egoismo e l’avidità . 
Questa resistenza è stata definitivamente vinta solo alle soglie della modernità  dalla filosofia illuministica e liberale dell’utilitarismo. Fino a quel punto il “pregiudizio” cattolico che preclude al cammello di passare per la cruna di un ago getta sul mercante capitalista un’ombra di discredito.
Il paradosso utilitarista, introdotto da filosofi come Bentham nell’Inghilterra alla vigilia della rivoluzione industriale, permette al capitalismo di liberarsi di questo pregiudizio, fornendogli una preziosa legittimazione morale. Quel paradosso può essere compendiato nella sentenza del Mefistofele goethiano che presentandosi provocatoriamente come lo spirito della negazione, afferma di essere “una parte vivente di quella forza che perpetuamente pensa il male e fa il bene”. A Faust che gli chiede “che dir vuole codesto gioco di strane parole” Mefistofele risponde evasivamente. Gli risponderanno invece gli economisti classici spiegando che il desiderio umano dell’arricchimento investito nella produzione competitiva si tradurrà  in ricchezza per tutti, anche se in diversa misura per ciascuno. Dall’avidità  può dunque nascere la prosperità . 
Si possono muovere due obiezioni a questo ragionamento. La prima, avanzata da Keynes, più che un’obiezione morale è un rilievo pratico. Per superare la riprovazione etica – Keynes afferma – il successo del capitalismo deve essere talmente decisivo da essere inimmaginabile. Il rilievo non convince. Il successo del capitalismo è stato effettivamente vincente.
La seconda è più convincente. L’avidità  è una passione incontrollabile. Anziché tradursi in un processo virtuoso di prosperità  si può avvitare in un circolo vizioso di sistematico arricchimento. Fine a se stesso. E allora il tacito accordo che assicura la base del consenso necessario si rompe. È ciò che avvenne dopo la fine della prima guerra mondiale provocando una crisi che sfiorò la catastrofe. È ciò che rischia di avvenire ora se la crisi che ha quasi travolto il sistema finanziario dei paesi capitalistici sfocerà  in una rovinosa recessione.
È possibile che il capitalismo superi anche questa crisi. Dopo tutto, come è stato detto, il capitalismo ha i secoli contati. Ma è anche possibile che non la supererà  se resterà  nel vortice del turbocapitalismo, o capitalismo finanziario, che lo ha travolto (Luttwak)
Ha bisogno di ricostituire un equilibrio soddisfacente tra finanza ed economia reale. Ha bisogno di ristabilire un equilibrio tra economia e politica. Ha bisogno di rinnovare quel compromesso storico con la democrazia che gli ha permesso di ritrovare le basi del consenso sociale nell’età  dell’oro succeduta alla fine della seconda guerra mondiale.

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