QUELLA SICILIA DEI FORCONI CHE NON VA SOTTOVALUTATA

by Editore | 22 Gennaio 2012 11:15

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La bandiera italiana, per la prima volta, viene bruciata nelle piazze. E non nel Nord leghista — dove pure il tricolore è stato talora svillaneggiato — ma al Sud. Il raffronto con la Primavera araba, come se a Roma fossero al governo un Gheddafi o un Assad, è all’evidenza una sciocchezza tale che non merita di essere discussa. Ma anche il paragone con gli Indignados di Madrid è improprio. Quello era un movimento che chiedeva una riforma del sistema politico spagnolo e l’apertura di nuovi spazi sociali ed economici. Quella esplosa a Palermo — e che ambisce ad attecchire in continente — è la protesta di categorie impoverite dalla crisi, schiacciate dalla burocrazia e dai prezzi, spaventate dalla mancanza di prospettive, talora private sia dell’obolo dello Stato assistenziale sia del «welfare» mafioso. Non deve stupire che la scintilla si sia accesa al Sud. Già  nel 150° anniversario dell’Unità  i segnali di insofferenza erano arrivati in particolare dal Mezzogiorno. I motivi sono sia culturali sia economici. Il rancore neoborbonico che fa risalire i mali del Sud alla «conquista» da parte del Nord ha un sapore consolatorio, perché carica le responsabilità  su spalle altrui. E la crisi riduce ai limiti della sussistenza interi ceti sociali e categorie professionali. Perché chi perde lavoro al Nord si rassegna magari al declassamento, mentre le lacune del sistema produttivo fanno sì che al Sud l’alternativa sia spesso la miseria; di fronte alla quale lo spettacolo delle prebende e dei privilegi cui i politici proprio non riescono a rinunciare assume i contorni della vergogna. Non è un caso che l’altro simbolo della rivolta, oltre ai forconi, sia il vessillo della Trinacria. In Sicilia stiamo assistendo alle doglie che precedono la nascita della Lega (o delle leghe) del Sud; che non sarà  certo una sottomarca di Forza Italia — come il partitino di Micciché — e forse neppure l’Mpa di Lombardo, ma un movimento che almeno alle origini si annuncia populista più che clientelare, ribellista ed extrapolitico più che istituzionale e di governo. Proprio questo deve indurre l’esecutivo Monti, i partiti nazionali, i ceti produttivi e in generale l’opinione pubblica a vigilare. Perché il vuoto della politica e dell’economia va riempito, e non con i forconi e i roghi delle bandiere. È giusto tagliare le false pensioni di invalidità  e i contratti che condannano non solo i giovani ma anche i padri di famiglia a un precariato indefinito e mortificante. Ma il rigore non può essere un pretesto per abbandonare il Sud a ribelli e separatisti magari infiltrati dalla mafia. Una fiscalità  di vantaggio che dia ossigeno alle imprese, un sostegno a chi intenda aprirne di nuove (vere, non fittizie), investimenti sul turismo e sull’istruzione, una seria politica del credito rappresentano non soltanto le richieste ragionevoli che salgono da quell’ampia maggioranza che al Sud non ha smesso di ragionare e non cede alla disperazione: dovrebbero essere la priorità  per un governo che metta al primo posto la crescita economica e il riscatto civile dell’intera nazione.

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