Quando gli americani hanno scoperto Parigi

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Un americano a Parigi: indimenticabile Gershwin. E poi, racconti, lettere, personaggi, storie e diari, film, famosi quanto il bellissimo concerto. Era la Parigi degli anni Venti e numerosi sono stati gli scrittori e gli artisti americani che, scoperta l’Europa, hanno lasciato a Parigi un segno restandone segnati. Ma non sono stati i primi. Gli americani di Gershwin erano il seguito pacifico dei due milioni di giovani soldati degli Stati Uniti sbarcati in Francia nel 1917 in soccorso dei francesi e degli italiani e accolti con indescrivibile entusiasmo soprattutto a Parigi (“Parigi esplose di gioia. Ne fummo sorpresi e storditi…” ricorderà  il generale John J. Pershing, capo della spedizione militare) salvando la Francia e l’Italia dal collasso militare (noi avemmo Caporetto, i francesi ammutinamenti di truppe su tutti fronti, con rivolte, decimazioni, tribunali militari). 
Ma in un clima e in tempi del tutto diversi alcuni decenni prima, in un Ottocento pieno di promesse e di invenzioni, altri americani erano giunti a Parigi, scopritori e viaggiatori forse più incantati e pieni di idee di quelli che verranno nel Novecento. Intellettuali dei quali nessuno aveva dato un catalogo né raccontato le storie personali e i successi meglio di quanto ora ha fatto, in una straordinaria ricerca, David McCullough, due volte premio Pulitzer, tra i più autorevoli studiosi di storia americana (The Greater Journey. Americans in Paris, pagg. 558, Simon & Schuster, New York).
Il confronto tra le due ondate non è comunque possibile. Gli anni Venti del Novecento durarono in fondo lo spazio di un mattino, Il Grande Viaggio del secolo precedente durò invece dal 1830 al 1900: un Tour di iniziazione, lunghissimo, che coinvolse tre generazioni di artisti, scrittori, medici, politici, architetti. Era il primo incontro diretto della cultura americana con quella parte dell’Europa che proprio dalla rivoluzione politica del 1830 si apriva a tutti i mutamenti possibili e a tutte le ribellioni possibili (di lì a poco, nel 1848, a Parigi le rivoluzioni saranno addirittura due, a febbraio e a giugno) contro le mortificazioni, le censure e le interdizioni della Restaurazione. Bastava questo per accendere la curiosità , il bisogno di novità , lo spirito di avventura di certi americani inquieti che da tempo leggevano, traducevano, scoprivano la cultura europea (persino il nostro Leopardi era conosciuto negli Stati Uniti). Questo spirito di avventura intellettuale era simmetrico, anche cronologicamente, a quello dei pionieri che in quegli stessi anni attraversavano immensi territori alla conquista del West. Ma, come scrive McCullough, “non tutti i pionieri andavano nel West”, e non si trattava esclusivamente di uomini.
Da Cincinnati giunse a Parigi nel 1849 la prima donna americana laureata in medicina, Elisabeth Blackwell. Parigi le pareva il luogo ideale sia per esercitare liberamente la professione (negli ambienti scientifici americani si riteneva che le donne fossero troppo nervose e eccitabili per riuscire a curare qualcuno), sia per stare in contatto con un mondo femminile che si stava liberando da emarginazione e subordinazione (“e come sanno parlare le ragazze francesi…”, scriveva alla madre). E poi l’elenco di artisti, scienziati, scrittori: i due amici James Fenimore Cooper e Samuel Morse (quest’ultimo, famoso per l’alfabeto telegrafico inventato proprio a Parigi, ha al Louvre un posto di rilievo come pittore e ritrattista eccezionale. “Parigi è ora il grande centro del mondo”, è una delle sue ultime pubbliche dichiarazioni), il mitico pittore John Singer Sargent, il cui studio parigino era frequentato quanto quello dello scultore Augustus Saint-Gaudens, la pittrice Mary Cassat, i cui quadri non sono separabili dalla pittura di Degas e degli impressionisti. E che dire del successo del pianista Louis Moreau Gottshalk che portò da New Orleans le melodie creole. E poi Ralph Waldo Emerson, Nathaniel Hawthorne, Mark Twain che in Innocents Abroad diceva di Parigi: “sfavilla sopra di noi come una splendida meteora”, Henry James.
Ai tempi dell’impero “liberale” di Napoleone III gli intellettuali americani residenti a Parigi erano più di quattromila per non contare quelli che venivano per poco tempo in omaggio al “Greater Journey”, l’equivalente culturale del Grand Tour che i giovani europei facevano in Italia già  nel Settecento. E si possono immaginare anche i conflitti, le rivalità , i dubbi, i piaceri, la felicità  e le infelicità  che hanno attraversato i settanta anni di storia degli americani a Parigi. Il libro parla anche di questo.


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