by Sergio Segio | 2 Gennaio 2012 9:05
NEW YORK. «Adesso tocca a noi consumatori, agli attivisti, ai ricercatori. Tocca a noi vigilare perché il commercio equo non diventi solo un altro mezzo per migliorare l’immagini delle grandi corporation». Sarah Lyon è professoressa di antropologia alla Kentucky University e tra le più importanti studiose (Fair Trade & Social Justice il lavoro più completo sull’argomento, 2010) di quel commercio equo che negli Usa è stato benedetto anche dal Nobel Joseph Stiglitz (Fair Trade for All, 2007). Allora è vero che gli americani divorziano da Fair Trade International solo per poter fare più business con le multinazionali? «In questo momento sono ancora in attesa di vedere gli sviluppi. Da una parte spero che lo strappo possa servire a invigorire il movimento attraverso un dibattito finalmente salutare: non c’è solo Fair Trade e qui negli Usa per esempio sono centinaia a operare al di fuori di quel circuito. La diversità è benvenuta. Dall’altra ho paura che la mossa sia dovuta proprio al potere crescente delle multinazionali nell’affare del commercio equo». Eppure Fair Trade Usa sostiene che solo aprendo alle multinazionali ed etichettando come equa la produzione anche nelle grandi piantagioni si possano proteggere “gli ultimi della Terra”. Raddoppiando la fetta di mercato. «Non ho la palla di cristallo e non so se la promessa del presidente Paul Rice potrà davvero avverarsi. Sappiamo però che oggi il commercio equo in molte regioni del mondo non riesce ancora a raggiungere le famiglie più povere. E per una varietà di ragioni: prodotti che non raggiungono gli standard per l’esportazione, cooperative che non funzionano, mancanza di risorse per gli investimenti necessari a una produzione equa e sostenibile». Quindi l’allargamento del mercato potrebbe essere un fattore positivo. «Non basta. Già l’attuale e potenziale produzione, cioè l’offerta, eccede di gran lunga la domanda. Insomma non basta allargare il mercato: bisogna costruire al contrario più coscienza tra i consumatori – è questa la chiave per espandere i benefici del commercio equo a una serie di prodotti, e quindi di produttori, sempre più ampia». E per questo lei parla di funzione “guardiana” dei movimenti di opinione. E di noi consumatori. «Appunto. Tocca vigilare perché non diventi solo un altro mezzo di marketing per il grande business. Bisogna invece che il movimento continui ad avere come priorità la giustizia sociale e l’alleviamento della povertà piuttosto che puntare semplicemente alla qualità e alla quantità della produzione. E senza l’attenzione continua dei consumatori temo che Fair Trade Usa possa concentrarsi sempre più sullo sviluppo del suo marchio invece che sulla crescita del movimento».
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