“NON CHIAMATEMI ROMANZIERE RACCONTO SOLTANTO STORIE”

by Editore | 9 Gennaio 2012 1:52

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L’intervista è per John Berger una fatica. Fisica e intellettuale. Sospira, si arrabbia, si batte le mani sulla fronte, farfuglia e sbuffa, alternando partenze a razzo a bruschi silenzi in cerca di una precisione nel pensiero. L’avanzare dell’età  – ha da poco compiuto ottantacinque anni, essendo nato a Londra il 5 novembre del ’26 – è solo una delle ragioni: «Ci sono domande – dice – a cui potrebbero rispondere meglio i lettori». In Italia la sua fortuna resta salda: il 19 gennaio uscirà  un volume di Riga 32 (Marcos y Marcos, a cura di Maria Nadotti, pagg. 352, euro 25) a lui dedicato e, poi, una nuova traduzione di G. (per Neri Pozza), con cui vinse il Booker Prize nel ’72. Fin dai titoli (Questione di sguardi, Sul guardare, Modi di vedere), i suoi libri ci parlano di visione, di interpretazione, di dare un senso all’esperienza, altri modi di declinare la parola testimonianza: «Ci sono due cose che determinano le mie idee: la presenza di un mistero dell’arte e la solidarietà  con gli emarginati». I genitori, ricorda, lo spedirono in un collegio, «mostruoso e brutale», trovò conforto nello studio dell’arte; solo più tardi, negli anni Cinquanta, abbandonò la pittura per scrivere a tempo pieno. Lo spartiacque fu però il reportage fotografico con Jean Mohr sui migranti, nel ’73: «Come scrittore mi sarei potuto immaginare la loro vita, l’impatto della città , la solitudine. Ma non potevo immaginare quello che avevano lasciato. Così ho iniziato a vivere in mezzo a loro prima che andassero via dalla terra». Di recente ha donato i suoi manoscritti alla British Library.
Si dice che nella vecchiaia si arrivi ad una specie di essenzialità . Si sfronda tutto. 
«Non ho una visione chiara di me stesso. Almeno come scrittore. So che non sono più forte come lo ero un tempo. E il passato è spesso doloroso». 
Ha mai affrontato le sue immagini da bambino?
«Non direttamente. Quando ho scritto dei miei genitori ho dovuto considerare anche l’infanzia e l’adolescenza, che sono venute fuori in modo naturale. Nei miei libri ci sono percezioni, pregiudizi, memorie che provengono dalla mia biografia, ma non accade coscientemente. A chi mi considera un romanziere rispondo che preferisco essere definito uno storyteller».
Qual è la differenza? 
«Il primo fa ricorso, abbastanza spesso, a elementi autobiografici. Il secondo mai. Se si vuole essere credibili bisogna fare come Omero che parlava della vita degli altri. Lo storyteller racconta storie che non gli appartengono. Le trasporta da un posto ad un altro, da uno spazio ad un altro».
Secondo Benjamin il narratore è una persona «di consiglio». Lei da chi ha imparato di più?
«Ho abbandonato la scuola a sedici anni. Da allora non ho più avuto una educazione ufficiale. A trentotto anni mi trasferii in un villaggio, Quincy, dove sto ancora adesso, in Alta Savoia. All’epoca c’erano molti vecchi contadini, uomini e donne, che seguivano le tradizioni rurali esistenti da centinaia di anni. Ho trascorso con loro tanto tempo, parlando, ridendo, restando in silenzio. Mi hanno trasmesso una serie di valori di cui erano i guardiani». 
Il primo della lista?
«Per loro il passato coesiste con il presente. La morte è nella vita. Non perché siano nostalgici o conservatori. Il senso di continuità  e la condivisione delle esperienze rendono il passato qualcosa che fa compagnia al presente, e anche al futuro. La loro cultura è l’esatto opposto del tempo assoluto, istantaneo del consumismo, che si basa sulle promesse che la pubblicità  ci offre. È crudele il loro mondo? Affrontare la realtà  non preclude la dolcezza o la sensibilità ».
Sente un legame con uno scrittore in particolare in questo momento della sua vita? 
«Provo una enorme fascinazione per Pasolini. A lui mi unisce la stessa visione del mondo dei contadini. Sono dei sopravvissuti. Tempo fa, scrivendo su di lui, mi sono detto che c’era qualcosa di angelico. Era assurdo, avrebbe odiato essere definito così. Poi una mattina, svegliandomi, una voce ha detto vai e guarda il San Giorgio e la principessa di Cosmé Tura. Ho rivisto la fermezza nello sguardo di San Giorgio, la sua pena, la precisione con cui uccide il drago, il senso di necessità  privo di compiacimento. La somiglianza con Pasolini non è fisica, è di anima». 
C’è un artista contemporaneo la cui opera può aprire uno squarcio sul futuro? 
«Questo è il motivo per cui odio le interviste, la risposta la saprò domani mattina. Ok. Anish Kapoor, lo scultore e architetto indiano. Uno dei materiali che usa di più è la cera, così profondamente malleabile. La sua arte ha a che fare con lo spazio e con il corpo, nel senso che è in quello spazio corporeo lo spettatore trova sé stesso. In lui il colore non tocca ma immagina di toccare. Kapoor gioca con lo spazio in un modo che non ha niente da spartire con la prospettiva europea». 
Cosa pensa di Jan Fabre? 
«È un esibizionista».
E Cattelan?
«Lo è anche lui, in un modo diverso».
Esiste una malattia dell’occhio dell’artista occidentale?
«Più di ogni altra forma creativa l’arte è dominata dal mercato. Quel che è stato prodotto, soprattutto nella seconda e terza parte del secolo scorso, è, in maggioranza, merda. Però ciò che lasciamo ai posteri è una piccola porzione di quel che s’è fatto. Molti artisti visuali europei sono pretenziosi, poco originali. Ma non tutti. Solo andando oltre il bosco possiamo scorgere l’orizzonte».
Che cosa l’ha spinta a tradurre Murale, il poema di Mahmud Darwish?
«La mia identificazione con la lotta palestinese. Darwish possedeva uno humour straordinario. In Palestina si è sempre circondati dalle conseguenze delle ingiustizie. Fisicamente, visivamente. Però è uno dei posti dove si ride di più. Il sentimento della perdita lo si divide con gli altri, e lo scopo è sopravvivere. Nelle sue poesie ritrovo tutto ciò. Il mio problema era riprodurne il respiro. Non basta prendere una parola e spostarla dall’altra parte. Bisogna andare a vedere dietro la parola, e dietro c’è qualcosa di preverbale che appartiene al corpo intero di una cultura. Quando lo si trasporta nella lingua d’arrivo bisogna cercare un equivalente. Tradurre significa passare attraverso, in profondità ». 
Chi sono i nuovi tiranni di cui parla nel suo ultimo libro, The Sketch Book? 
«Non c’è nessun Fà¼hrer o Stalin tra di loro. Sono anonimi. Operano attraverso il capitalismo finanziario. I loro occhi esaminano tutto e non contemplano nulla. Sono incapaci di ascoltare e la fiducia in se stessi è pari alla loro ignoranza: profittatori che non sanno niente di niente, né delle proprietà  né dell’essenza delle cose. Conoscono solo i loro racket. Da qui la paranoia e, generata da questa, la loro energia ripetitiva. Il loro reiterato articolo di fede è: non c’è alternativa».

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