“La mia lista treccani senza il poeta e gadda ma con sandokan”
C’è Ungaretti, ma non Montale. Tre volte Grazia Deledda, non una Pirandello. E Gramsci e Gobetti? Meglio il Fior da Fiore scelto da Pascoli. Muto anche Italo Svevo, mentre tengono concione Ada Negri e Guido Gozzano. Meno male che ci sono Italo Calvino e Primo Levi, ma dov’è finito Pasolini? E Gadda? No, «il pasticciaccio di una lingua italiana che non è involucro di ragione» viene cassato dal “libro dei libri”, monumentale crestomazia delle letture che in un secolo e mezzo hanno fatto gli italiani, pubblicata ora per la cura di Carlo Maria Ossola nella storica collana Ricciardi rilevata dalla Treccani.
In ossequio al gioco di inclusi ed esclusi, Libri d’Italia (1861-2011) non mancherà di far discutere. Nell’antologia dei dodici titoli che in 150 anni di storia unitaria hanno affollato le nostre case figurano testi prevedibili come Cuore e Pinocchio, il tradizionale manuale dell’Artusi insieme a Le tigri di Mompracem, ma anche l’inatteso Ricettario industriale di Italo Ghersi, la Costituzione e le letture del Corriere dei Piccoli (da Ada Negri a Ida Finzi, da Barzini a Gozzano, da Capuana alla Deledda). «È il racconto di una memoria collettiva reale, non del paese che sarebbe piaciuto agli intellettuali», dice Ossola, studioso formatosi alla scuola di Giovanni Getto e di Franco Venturi, da oltre dieci anni professore di Letterature moderne dell’Europa neolatina al Collège de France. Una memoria condivisa che la Treccani – nell’intenzione del presidente Giuliano Amato, autore della prefazione – vorrebbe consegnare nelle mani dei “nuovi italiani”.
Professor Ossola, perché escludere Montale da Libri d’Italia?
«No, nessuna esclusione. Io non ho curato una storia della cultura intellettuale in Italia, ma volevo rappresentare la memoria condivisa degli italiani così come si è formata nel corso di centocinquant’anni. Potrei dirlo in un altro modo: ho selezionato quegli autori la cui lettura pubblica – avvenuta principalmente nella scuola media – ha alimentato una coscienza collettiva che si è trasmessa di generazione in generazione».
E secondo lei Montale è meno presente di Ungaretti?
«Ungaretti con Porto Sepolto rappresenta la prima guerra mondiale, un momento significativo della vicenda nazionale che ha accelerato la formazione dell’identità italiana. È anche evidente, per ragioni storiche, che Ungaretti è stato presente nella scena della lettura pubblica prima di Montale. Pensi a un verso come “M’illumino d’immenso”, o anche alla sua apertura mediterranea di cui oggi sentiamo un gran bisogno».
I montaliani piangeranno.
«In un volume che deve sintetizzare 150 anni in millecinquecento pagine le esclusioni sono tantissime e tutte dolorose. Ma ripeto: bisogna partire dalla memoria collettiva, non dai singoli autori. Poi sarebbe stato sbagliato comporre un’antologia dell’Italia intellettuale virtuosa, quale non s’è mai realizzata».
Cosa vuol dire?
«Avrei potuto fare un volume con gli autori che avremmo voluto come emblema della coscienza nazionale. Non solo Montale, anche Gramsci, Gobetti, Saba».
Perché non farlo?
«Ognuno di noi ha in mente i libri che avrebbero potuto fare gli italiani, ma non è stato così. E abbiamo preferito aderire alla realtà storica».
Quindi gli italiani furono fatti da Negri e Deledda, Finzi e Panzini.
«Il Corrierino dei Piccoli esercitò una grande influenza, facendo conoscere ai più giovani la narrativa di scrittori affermati. Nessuno meglio di Italo Calvino ha saputo descrivere lo snodo tra parola e immagine che negli anni Venti mirabilmente svolse quel supplemento».
Ma dovendo offrire una biblioteca tricolore ai nuovi italiani, non era preferibile fare una scelta più alta, illudendoci di essere un po’ migliori di quello che siamo?
«Quando devo fare il bilancio di 150 anni, le ragioni della storia sono più importanti di quelle del desiderio. Un testamento è efficace se lascio quello che è in mio possesso, non ciò che ho desiderato. Uno dei maggiori difetti che ha reso fragile l’Italia nell’ultima parte del secolo scorso è immaginare come reale il paese agognato. Quando poi abbiamo conosciuto un’Italia opaca e contraddittoria, ci è stato difficile interpretarla».
Facendo un passo indietro: in Libri d’Italia non sorprendono Cuore e Pinocchio, ma il Ricettario industriale sì.
«Capisco che sia un testo oggi poco conosciuto – un prontuario in 2886 ricette uscito ai primi del Novecento – ma all’epoca i manuali Hoepli di Italo Ghersi vendevano centinaia di migliaia di copie. E due studiosi come Tullio Regge e Primo Levi attribuiscono a quest’autore l’origine della propria vocazione di scienziati. È un’Italia che abbiamo messo da parte – un paese che si nutre della razionalità e del linguaggio scientifico – ma che invece costituisce una nervatura importante».
Come Il Bel Paese dell’abate Stoppani, l’opera del 1876 con cui apre l’antologia.
«Sì, sono i primi capitoli della moderna cultura industriale in Italia. Bisognerebbe andarsi a rileggere i paragrafi dedicati petrolio, scoperto molto prima dell’Eni…».
Rispetto agli arabeschi di D’Annunzio e alla velocità di Marinetti, lei sembra dare maggior rilievo ai maccheroni dell’Artusi.
«Come attraversare la Belle Epoque? D’Annunzio l’avrei potuto inserire tra i libri che hanno disfatto gli italiani, illudendoli, fuorviandoli, nutrendoli di parole sonanti. E l’avanguardia mi sembra meno significativa – sul piano della mentalità condivisiva – rispetto al ricettario, che rappresenta un’economia che si sviluppa tra casa e bottega. Il fascino dell’Artusi sta nella sapienza profusa nel rappresentare l’Italia intera, dal risotto coi ranocchi di area piemontese ai maccheroni con le sarde alla siciliana».
L’ultimo titolo di Libri d’Italia è Le città invisibili di Italo Calvino, un libro uscito nel 1972. Questo significa che negli ultimi quarant’anni non abbiamo prodotto niente di rilevante?
«L’opera di Calvino è la testimonianza, lucida e profetica, di ciò che sarebbe accaduto. In seguito la letteratura italiana s’è come ripiegata su se stessa, adottando un minimalismo che non corrisponde alle sfide globali del XXI secolo. E invece è nella tradizione della nostra cultura – da Dante a Galileo, da Pirandello a Calvino – aprirsi ai problemi di tutta l’umanità . È sbagliato dimenticarlo».
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