Primarie nel nome di Dio

by Editore | 3 Gennaio 2012 9:54

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E questo giorno di gennaio è praticamente l’unico momento (ogni quattro anni) in cui gli altri statunitensi e gli stranieri hanno l’occasione di sentir parlare dello Iowa. L’Iowa è un’immenso e vuoto saliscendi di colline. Questo stato del Midwest, nel cuore della corn belt (la «cintura del mais»), è infatti grande metà  dell’Italia, ma ha solo 3 milioni di abitanti. Qui i paesetti portano nomi che rivelano l’intensità , la speranza, il coinvolginento che, nel costruirli, ci aveva messo chi li ha fondati: Confidence, ma anche Mystic, Promise city, Bethelem, Chariton, Gravity, Hopeville («Borgosperanza»). Nomi gravi, religiosi, che oggi suonano irrisori, persino ironici, quando lo straniero abbandona la strada principale e si avvia su diramazioni deserte di questa che è una delle più fertili e sfruttate pianure del mondo. La capitale, Des Moines, ha circa 200.000 abitanti, orgogliosa dei suoi quattro o cinque grattacieli (le città  Usa inalberano nelle proprie downtown un numero – e altezza – di grattacieli proporzionali alla potenza e prosperità  che vogliono ostentare). In modo incongruo, un ristorante cinese si vanta di essere stato fondato ben 107 anni fa, nel 1905, forse per i manovali cinesi lasciati in questo semideserto Midwest come relitti dalla risacca, dopo essere stati usati per costruire le ferrovie transcontinentali.
L’Iowa è come ai margini della storia: qui in 40 anni la popolazione è rimasta praticamente ferma (è cresciuta solo del 7%) mentre gli Stati uniti passavano da 204 a 310 milioni di abitanti. E questo modesto accrescimento demografico è dovuto quasi solo all’immigrazione ispanica (6% della popolazione) e agli anziani che s’insediano qui approfittando del basso costo della vita e dei prezzi immobiliari stracciati (vendono le case che possiedono in altri stati, comprano qui e con la differenza integrano la pensione). Le campagne si sono svuotate anche per l’incredibile automazione dell’agricoltura Usa, dove un paio di operatori bastano a coltivare centinaia di ettari.
La partecipazione alla primaria repubblicana sarà  oggi ancor più rarefatta della rarefatta popolazione dello stato. Si prevede che andranno a votare tra i 100.000 e i 150.000 elettori che si sono registrati come repubblicani: nelle primarie americane è ormai tattica comune che i partecipanti del partito avverso vadano a votare per il candidato nemico che ritengono più debole e battibile: fu questo uno dei fattori che nel 2008 permise a Obama di essere eletto, perché i repubblicani lo percepivano come un candidato più fragile (perché nero) di Hillary Clinton e riversarono su di lui voti decisivi in alcune primarie.
Andranno a votare nelle palestre dei licei, nelle aule delle scuole elementari, nei piccoli aeroporti, e saranno per lo più anziani di piccole comunità  rurali, di solito religiosi fino quasi al bigottismo.
Per questa ragione nell’ultimo mese tutti e sette i candidati repubblicani più rilevanti hanno fatto a gara sulle radio e tv locali a chi nomina di più Dio, a chi si cosparge di più il capo di cenere, a chi tuona più forte contro i peccatori abortisti o omosessuali. Sette politicanti che guidano la crociata contro la politica di Washington.
Il mormone Mitt Romney (64 anni) è il più moderato tra loro, ma anche il più banderuola. Quando era governature di uno stato liberal come il Massachusetts ha varato una riforma sanitaria più «a sinistra» di quella approvata da Obama, ma ora promette di disfare il sistema sanitario e si fa fautore dello «stato ultraminimo» per ingraziarsi il Tea party. L’establishment del partito repubblicano spera in una sua buona performance (anche se non necessariamente una vittoria) perché lo considera il candidato più in grado di attirare i voti dei moderati e degli indipendenti. Ma ha due handicap: la sua religione mormone e l’ostilità  del Tea Party.
Del Tea Party è espressione diretta Michelle Bachman (55 anni), deputata alla camera dei rappresentanti eletta in una circoscrizione del Minnesota, che non esclude l’opzione atomica contro l’Iran, vuole inserire nella costituzione il divieto di matrimoni omosessuali e revocare il diritto di aborto. Nella campagna in Iowa ha citato a più non posso John Wayne (che in questo stato nacque), sbagliando però il paese in cui era nato. Filo Israele, è talmente contro l’Islam che ha vietato ai figli di vedere Aladdin della Disney. Viene data in calo e il proseguo della sua candidatura è a rischio.
Un altro che ripete a tutto spiano la litania dei fondamentalisti cristiani è Rick Santorum (53 anni), ex senatore della Pennsylvania, che nega l’evoluzione delle specie, è filo-creazionista e paragona l’omosessualità  all’incesto. Viene dato in ascesa nei sondaggi, perché i contadini fondamentalisti dello Iowa lo sentono come uno vero, uno dei loro, ma le sue possibilità  in una campagna generale sono basse.
Il più anticonformista è l’anziano Ron Paul (76 anni), deputato del Texas. Assai razzista, dà  voce all’antipolitica versione Usa e spinge il suo libertarismo fino agli estremi limiti, nel bene e nel male, con aspetti alla Henry David Thoreau. Isolazionista, vuole che gli Usa escano dalle Nazioni unite e dalla Nato. Vuole chiudere le basi militari all’estero. È per lo stato ultraminimo teorizzato da Robert Nozick, in tutti i sensi. Vuole revocare il Patriot Act (che consente renditions e torture). È contro «la guerra alla droga» e contro la limitazione delle armi. Vuole revocare il diritto di aborto. Vuole abolire l’imposta federale sui redditi. Un grande punto interrogativo grava però sui risultati in Iowa: potrebbe essere troppo libertario per questo stato.
Sempre dal Texas viene Rick Perry (61 anni) che successe come governatore di quello stato a George Bush Jr e si atteggia a sceriffo dell’America senza pietà  (pose il veto alla legge che vietava l’esecuzione di malati di mente in Texas). Dopo un inizio promettente, la sua campagna stagna sia perché dietro le sue arie da sceriffo gli elettori temono un voltagabbana (cominciò facendosi appoggiare dai democratici), sia per le sue gaffes televisive, come quando non riuscì a ricordare i tre ministeri federali che avrebbe abolito se fosse diventato presidente.
Un altro candidato in difficoltà  è New Gingrich (68 anni), un politico di lungo corso che nel 1994 guidò i «nuovi repubblicani» alla conquista della Camera dei rappresentanti durante il primo mandato di Bill Clinton (il quale però dimostrò una capacità  di manovra superiore tanto che vinse un secondo mandato). Poi Gingrich guidò la battaglia per l’impeachment di Clinton, anche se nel frattempo aveva una storia extraconiugale con una sua segretaria cattolica con cui poi si è sposato e alla cui fede si è convertito. Oggi i suoi troppi scheletri nell’armadio lo zavorrano e rischia di uscire presto dalla competizione.
Infine c’è un altro mormone Doc, l’ex governatore dello Utah (lo stato dei mormoni) Jon Huntsman (51 anni), ex ambasciatore a Pechino (nominato da Obama), che si presenta come «l’Obama di destra». E’ dato per sconfitto sicuro in Iowa (2% secondo gli ultimi sondaggi), però ha reagito dicendo: «In Iowa raccolgono mais, in New Hampshire mietono presidenti», riferendosi alle prossime primarie che si terranno il 10 gennaio e su cui ripone tutte le sue speranze.
Infatti non è detto che le primarie in Iowa indichino poi il candidato che uscirà  effettivamente vincente: per esempio nel 1980 George Bush padre vinse contro Ronald Reagan ma poi fu quest’ultimo a ottenere la nomination. Nel 1988 lo stesso Bush arrivò addirittura terzo in Iowa dietro il senatore del Kansas Bob Dole e il telepredicatore evangelista Pat Robertson, ma poi fu lui a vincere la presidenza. Nel 2008 il candidato che poi avrebbe vinto la nomination repubblicana, e cioè il senatore dell’Arizona John McCain, arrivò addirittura quarto in Iowa dietro Mick Huckabee (già  pastore battista ed ex governatore dell’Arkansas), Mitt Romney e Fred Thompson del Tennessee.
Perciò non diamo troppo credito ai risultati che ci saranno comunicati domattina (i caucuses chiudono alle 18 ora dello Iowa, cioè all’una di notte italiana): è solo la prima tappa di una lunga, estenuante maratona verso le Conventions di agosto.

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