Perché far pagare le tasse è una rivoluzione culturale
Nella controversa agenda politica di questa difficile stagione ha fragorosamente fatto ingresso la lotta all’evasione fiscale. Non più come tema polemico, non più come rivendicazione di qualche buon esito di un’azione amministrativa di contrasto, ma come questione capitale, destinata a sconvolgere equilibri, colpire interessi, revocare in dubbio compiacenze. Questo è avvenuto con due mosse fortemente simboliche. Il blitz a Cortina e una dichiarazione del Presidente del consiglio che ha indicato negli evasori quelli che «mettono le mani nelle tasche dei contribuenti onesti». Non siamo solo di fronte allo smascheramento dell’ipocrita vulgata berlusconiana, ma alla denuncia di una inaccettabile redistribuzione alla rovescia delle risorse, per cui oggi sono soprattutto i meno abbienti a pagare servizi di cui, troppe volte, sono proprio i più ricchi ad avvantaggiarsi (si pensi solo al caso dell’istruzione universitaria, alla quale spesso non riescono poi ad accedere i figli di chi maggiormente la finanzia). Ed è giusto ricordare quel che disse Tommaso Padoa Schioppa: «le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l’istruzione e l’ambiente».
Ironie e dileggi accolsero questo limpido richiamo alle virtù civiche. E oggi sono violente le reazioni dei molti che ritengono inaccettabile una priorità come la lotta all’evasione, certamente incompatibile con il melmoso immoralismo che si è fatto cemento sociale e nel quale si è cercato il consenso politico. Ma i gesti simbolici sono importanti, a condizione che siano poi accompagnati da inflessibile volontà politica e da quella adeguata strumentazione tecnica ricordata da Alessandro Penati, con una sottolineatura significativa: la necessità di modificare “i comportamenti individuali e collettivi”.
Qui si gioca la partita vera. Certo, «non si cambia la società per decreto» – ammoniva Michel Crozier. È indispensabile, allora, un lavoro che vada nel profondo e rimetta in onore principi fondativi abbandonati. E, poiché questi sono tempi in cui è così insistente il richiamo ai doveri (magari per rendere più debole l’appello ai diritti), bisogna partire dai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» previsti dall’articolo 2 della Costituzione. Ma contro la solidarietà sono state spese negli anni passati parole di fuoco, denunciandone i “pericoli” e, muovendo da questa premessa, si sono organizzate “marce contro il fisco”. Si è così cercato di svuotare di senso sociale e di valore civile l’articolo 53 della Costituzione: «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» e secondo criteri di progressività . Da quest’insieme di doveri, invece, non si può “evadere”.
Arriviamo così alla radice dell’obbligazione sociale e del patto tra cittadini e Stato. Nel momento in cui “tutti” non significa davvero “tutti”, e emerge con nettezza che il contributo alla spesa pubblica appare inversamente proporzionale alla capacità contributiva, con i meno abbienti che pagano più dei ricchi, allora si rompe il legame sociale tra le persone, tra le generazioni, tra i territori. Il ritorno pieno al principio di solidarietà , come valore fondativo, è la via obbligata per interrompere questa deriva e la Costituzione, parlandone come di un insieme di doveri inderogabili, individua un criterio ordinatore dell’insieme delle relazioni tra i soggetti, anzi un connotato della cittadinanza.
Abbandonando quel riferimento, infatti, si innescano processi che dissolvono la stessa obbligazione politica. Torna alla memoria un’espressione icastica e fortunata, legata alla rivoluzione americana: «No taxation without representation» – nessuna tassa senza rappresentanza politica, principio che ritroviamo nell’articolo 22 della Costituzione che affida solo alla legge, dunque a un atto del Parlamento, l’imposizione di prestazioni patrimoniali. Ma, una volta garantito il rispetto di tale principio da parte delle istituzioni pubbliche, il rapporto così istituito vincola il cittadino a fare la sua parte. L’evasione, allora, lo delegittima come partecipante a pieno titolo alla comunità politica.
Sono questi i punti di riferimento, rispetto ai quali valgono poco gli esercizi intorno al ruolo da riconoscere alla ricchezza. Questa, benedizione di Dio o sterco del diavolo, fa semplicemente nascere un dovere sociale. Non è una penalizzazione, dunque, un vera lotta all’evasione, ma lo strumento indispensabile per ricostituire una delle condizioni di base per il funzionamento di un sistema democratico. Ma il rigore non deve essere necessariamente declinato nei termini dell’emergenza. Come il contrasto alla criminalità non rende legittimo il ripescaggio delle perquisizioni senza autorizzazione del magistrato, così la lotta all’evasione deve rifuggire da strumenti sbrigativi, e non in linea con le indicazioni europee, come quelle riguardanti la segnalazione di ogni movimento d’un conto corrente.
Ricordiamo, poi, che già l’articolo 14 della Dichiarazione dei diritti dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 parlava del diritto del cittadino di “seguire l’impiego” dei contributi versati. Una vera lotta all’evasione, dunque, ha come complemento necessario una totale trasparenza pubblica, una implacabile lotta alla corruzione, l’inaccettabilità d’ogni forma di uso privato di risorse pubbliche.
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