Ok, giù le armi. Ma la pace non paga

by Editore | 26 Gennaio 2012 8:51

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Dietro il robusto portone di acciaio nero, ad accogliermi è il leader di uno dei due gruppi di Taleban che hanno deciso di deporre le armi, partecipando all’APRP, l’Afghanistan Peace and Reintegration Programme. Lanciato nel luglio 2010 dal governo afghano con il sostegno della comunità  internazionale (più di 151 milioni di dollari), il programma prevede il reinserimento professionale e sociale dei militanti di medio calibro, ed è favorito dal lavoro di un Alto consiglio di pace nominato da Karzai, a cui spetta il dialogo politico con la leadership talebana. 
All’interno dell’edificio – una guesthouse gestita dai servizi segreti afghani (il National Directorare of Security) -, in un ampio salone ci sono una quindicina di uomini e alcuni ragazzi giovanissimi dalle facce stanche e annoiate, sdraiati su materassi sottili. Unico passatempo, un lettore dvd e un piccolo televisore. A prendere la parola per primo è proprio Noor Mohammad, denti fini, naso appuntito e occhi spiritati, che racconta la sua storia (forse condizionata dai «suggerimenti» dei servizi afghani, che a Farah sono guidati dal potente Samad Khan): «Facevo parte della shura taleban di Farah, una shura importante, legata ai Taleban che risiedono in Pakistan, e che coordina il lavoro di più di dieci gruppi di Taleban. Ogni gruppo è composto dai 10 ai 15 elementi. Ho incontrato diverse volte gli uomini dei servizi segreti pakistani: mi hanno detto che, una volta tornato al mio villaggio, avrei dovuto uccidere la gente, distruggere o danneggiare le scuole, i ponti. A volte in inverno sono andato in Pakistan, per due o tre mesi, dove i pakistani tenevano dei brevi corsi di addestramento, anche solo di due giorni, su come sparare e confezionare le mine. Le armi le prendevamo qui a Farah, dove ce ne sono molte, anche le mine e le carte telefoniche per chiamare. Dal Pakistan ricevevamo il denaro: ogni mese 5000 kaldar (rupie pakistane). Quando combattevo – prosegue Noor Mohammad – non sapevo bene quali erano gli obiettivi. Era una questione politica, difficile per me. Ci dicevano di uccidere i soldati afghani perché sono gli occhi delle truppe straniere e perché, a differenza degli stranieri, quando vengono attaccati con i razzi abbandonano armi e macchine, e fuggono. L’ho fatto per molti anni, soprattutto nel distretto di Bala Buluk. Poi, nove mesi fa – spiega – ho deciso di lasciare le armi, e mi sono accordato con Samad Khan, il capo dei servizi afghani. Il governo ci ha promesso molte cose, e il governatore in persona ci ha detto che ci avrebbe dato un mestiere, chi come carpentiere, chi come fornaio. Non è successo niente, invece. Sono nove mesi che sono qui, non ho più una casa, non ho soldi per affittarne una nuova qui. Il processo di pace non funziona: non riesco a tornare a casa perché dicono che non è sicuro. Ma se il governo non riesce a garantirci la sicurezza, perché non dà  i soldi e le armi a me e ai miei ragazzi? Ci penseremmo noi alla nostra sicurezza», assicura Noor Mohammad, mentre tutt’intorno i suoi uomini annuiscono.
Anche il leader dell’altro gruppo di Taleban, Bismillah Jon, spiega la scelta fatta e il suo recente passato: «Vengo dalla provincia di Farah, dal distretto di Khak-e-Safid, villaggio di Khoshk. Ho combattuto come taleban per quasi 7 anni. All’inizio non sapevamo niente: andavamo in Pakistan e i servizi segreti ci dicevano di cominciare il jihad. Mio fratello è andato in Pakistan due volte, io solo una, due anni fa, a Quetta. I servizi pakistani dicono ai Taleban afghani che devono combattere fino alla morte. Il Pakistan è nemico dell’Afghanistan. L’Iran invece ha pochi Taleban, in questa zona. Ho sempre combattuto a Farah, nell’area del mio villaggio, e i miei ragazzi hanno sempre combattuto a distanza. Non li ho mai visti uccidere qualcuno faccia a faccia. Le armi le compravamo qui a Farah, ma il Pakistan ci dava i soldi, ogni due mesi ci mandavano 2000 kaldar. Poi – continua Bismillah Jon – i taleban pakistani hanno sparato a mio fratello, perché si lamentava che erano andati nel villaggio a distruggere ogni cosa, anche quelle utili alla popolazione. Allora io e il mio gruppo abbiamo deciso di partecipare al processo di pace. Oggi è diverso, ma fino a qualche mese fa per noi erano tutti nemici: poliziotti, soldati, maestri, professori, commercianti, stranieri. Tutti. Quanto a te, se ti avessi incontrato per strada, ti avrei ucciso senz’altro, senza farti domande. Era il mio lavoro”, conclude mentre tutti ridono.

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