OGNI SOCIETà€ PRODUCE IL SUO STRANIERO

by Editore | 24 Gennaio 2012 6:51

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«Tutte le società  producono stranieri: ma ognuna ne produce un tipo particolare, secondo modalità  uniche e irripetibili». Sembra una parafrasi dell’incipit tolstojano di Anna Karenina, ma queste parole di Zygmunt Bauman mettono in evidenza il processo di produzione dello straniero come individuo, che oltrepassa quei confini che abbiamo creato e che talvolta mal sopportiamo.
Si definisce «straniero», continua Bauman, chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche del mondo e con la sua semplice presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere trasparente. Secondo lo scrittore e saggista martinicano à‰douard Glissant è proprio l’idea di trasparenza a essere pericolosa: «Io rivendico il diritto all’opacità . La troppa definizione, la trasparenza portano all’apartheid: di qua i neri, di là  i bianchi. “Non ci capiamo”, si dice, e allora viviamo separati. No, dico io, non ci capiamo completamente, ma possiamo convivere. L’opacità  non è un muro, lascia sempre filtrare qualcosa. Un amico mi ha detto recentemente che il diritto all’opacità  dovrebbe essere inserito tra i diritti dell’uomo» . Straniero è colui che sconvolge i modelli di comportamento stabiliti, che compromette la serenità  diffondendo l’ansia (…).
«Gli oggetti si mondializzano, gli individui si tribalizzano». Con questa frase secca e un po’ sarcastica lo scrittore francese Régis Debray ha sintetizzato in modo esemplare un fenomeno che segna pesantemente questi ultimi decenni. È davvero così?
La messa in atto di politiche di liberalizzazione su scala mondiale, tipiche della globalizzazione, non si traduce affatto, come ci si potrebbe attendere, in un trionfo dell’individualismo, ma al contrario nella proliferazione di identità  collettive. Il progressivo disimpegno dello Stato sociale costringe la cosiddetta società  civile a farsi carico dei suoi problemi. Questo incoraggia il fiorire di tutta una serie di strutture (associazioni, ong), che hanno come missione la gestione del sociale al posto dello Stato e che spesso si appoggiano a forme comunitarie. 
«Si assiste allora alla ritribalizzazione delle società  contemporanee?», si chiede Jean-Loup Amselle. «La risposta è positiva se si considera che questo fenomeno è in relazione con la globalizzazione e la riduzione concomitante della sfera dell’intervento statale, e non con una qualsiasi essenza di società  che ritornerebbero allo stato naturale. Così come le etnie africane sono il prodotto di una storia e quindi della modernità , nel senso che risultano dalla concrezione di categorie importate e di categorie locali, le tribù dei quartieri difficili sono anch’esse il prodotto della storia recente delle società  occidentali e, in particolare, del disimpegno dello Stato».
Siamo in quella società  liquida, incerta, descritta da Bauman, in cui i punti fermi tradizionali sono venuti via via a mancare. La postmodernità  è un’epoca segnata dalla contingenza, dal sovraccarico di presente a scapito delle altre dimensioni. «L’incubo dei nostri contemporanei è quello di essere sradicati, senza documenti, senza patria, soli, alienati e alla deriva in un mondo di “altri” organizzati». In questa sorta di mare immenso in cui ci troviamo a galleggiare, senza meta e senza un faro in vista, siamo continuamente in cerca di un approdo. Come al naufrago si lancia una corda per aggrapparsi prima di venire portato via dalle onde, ai naufraghi della modernità  si getta il salvagente della dimensione etnica. 
«L’identità  fiorisce sul cimitero delle comunità , ma lo fa grazie alla promessa di risurrezione». Nessun contadino ha mai fatto un museo per proclamare la propria identità : gli bastava esserlo, contadino. L’identità  è un surrogato della comunità , che funziona nel nostro mondo individualista ed è «nel momento in cui la comunità  crolla che viene inventata la nozione di identità ». L’identità  è qualcosa che va inventato, non scoperto. È il prodotto di un lavoro di costruzione, non una materia prima che si trova sotto il suolo di un determinato territorio, né un nutrimento per le piante di una certa regione.
È qui che entra in gioco l’etnicità  e il «noi» regionale viene definito in termini etnoculturali, che si intrecciano a specifici interessi economici. Mentre il nazionalismo classico, quello sociale, si basava su una società  che includeva al proprio interno delle differenze, accomunate da una cultura nazionale condivisa e da un sentimento unanimemente percepito, il nazionalismo etnico è esclusivo, non accetta differenze, perché si fonda esclusivamente sull’identità  etnica. Un’identità , che così come viene concepita, indiscutibilmente legata all’autoctonia, non può essere negoziata, né modificata, pena la «contaminazione», termine che incute timore, e non a caso viene utilizzato nelle retoriche della purezza, perché evoca malattie contagiose e mortali. 
Quando la ricerca di comunità  si fa ossessione rischia di diventare tribalismo. È l’idea di una società  «pura», fondata su una presunta origine comune, peraltro definita con vaghezza, ma capace di fornire quell’autoctonia a cui vene attribuita un’importanza fondamentale. Evitare mescolamenti, conservare la presunta purezza originaria. 
La semplificazione, che riduce tutto a due elementi contrapposti, è una cifra della retorica xenofoba, che tradisce la mancanza di elaborazione della complessità , ma si rivela assolutamente vincente sul piano mediatico. Inoltre, risponde perfettamente al bisogno di appagare a basso costo un senso di appartenenza, che non prevede diversità  interne al gruppo del «noi», né a quello degli «altri». Inoltre, questa visione dicotomica e antagonista, che non lascia spazio a sfumature, favorisce un’adesione acritica al «noi», che comunque risulterebbe migliore della soluzione opposta, costruita ad arte sulla base di connotazioni negative e diametralmente opposte alle nostre. 
L’idea di società  proposta da molti movimenti xenofobi europei è quella di una comunità  chiusa, limitata e riservata agli autoctoni. Non una comunità  «calda» fondata sulla mutua solidarietà , su legami interni forti, quanto piuttosto una fortezza nata per respingere il nemico e difendere i propri beni. Riprendendo la definizione di Huxley e Haddon a proposito della nazione in genere, si potrebbe dire che «è una società  unita da un errore comune riguardo alle proprie origini e da una comune avversione nei confronti dei vicini».

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