Niente sconti ai ricchi, il discorso di Obama

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NEW YORK — L’orgoglio dell’America che, flagellata anche lei dalla crisi economica, riesce comunque a riportare a casa produzioni industriali e posti di lavoro trasferiti in Asia. E la promessa di «ricostruire l’economia da cima a fondo con regole uguali per tutti» per dare fiato a un ceto medio impoverito con una riforma tributaria che farà  pagare più tasse ai ricchi ed eliminerà  i «supersconti» fiscali concessi da Bush nel 2001 e nel 2003. Sgravi che negli Usa hanno esasperato oltre ogni limite le sperequazioni. In quello che potrebbe essere il suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione (comunque l’ultimo prima delle elezioni presidenziali di novembre), Barack Obama ha cercato ieri notte di valorizzare i primi successi (a cominciare da una timida ripresa dell’occupazione) di un’Amministrazione il cui bilancio è considerato da molti fallimentare. Ma, soprattutto, ha puntato sulla promessa di aiutare i ceti che hanno sofferto di più per la globalizzazione.
Un sostegno alla classe media che dovrebbe venire soprattutto da una maggiore offerta di lavoro (con incentivi per le imprese che riportano produzioni in Usa), dagli aiuti per i proprietari di case che non riescono più a pagare il mutuo e da una distribuzione più equa del carico fiscale, grazie alla «regola Buffett» che impedirà  a chi guadagna più di un milione di dollari l’anno di pagare, grazie a vari sgravi, meno tasse di un cittadino a reddito medio. Una norma invocata ripetutamente dal finanziere miliardario Warren Buffett, gran sostenitore di Obama, che da anni denuncia l’assurdità  di un sistema troppo generoso con gli investitori, che gli consente di versare, in percentuale del reddito, meno della sua segretaria. Obama aveva già  detto di voler introdurre una «Buffett rule» e ieri, per dare ancor più forza visiva a questo argomento, Michelle Obama ha voluto vicino a sé, sua ospite in tribuna d’onore, proprio Debbie Bosanek, segretaria di Buffett per più di vent’anni.
Nessun attacco, nelle parole del presidente, alle «minitasse» (il 14 per cento del reddito) pagate dal ricchissimo Mitt Romney. L’uomo che potrebbe essere il suo avversario repubblicano a novembre: sarebbe stato improprio in un’occasione istituzionale come il discorso annuale sotto la cupola del Campidoglio davanti alle Camere riunite. E tuttavia, pur con un profilo ufficiale, questo discorso è servito a Obama anche per tracciare il solco della sua strategia elettorale. Ai repubblicani che lo accusano di essere statalista, fautore di un «welfare» all’europea dai costi insostenibili e di alimentare l’invidia sociale, il leader democratico risponde richiamandosi, come già  un mese fa in Kansas, all’eredità  morale di Theodore Roosevelt: il presidente repubblicano, gran conservatore, che, però, all’inizio del Novecento, introdusse nel sistema americano alcuni principi di solidarietà  sociale per temperare gli aspetti più brutali del capitalismo. E che non ebbe paura di dare un ruolo allo Stato in alcune aree specifiche, creando, ad esempio, la rete dei parchi nazionali. «Basta a salvataggi» pubblici, «basta all’elemosina» ovvero allo statalismo, ma anche «basta all’emarginazione», ha sintetizzato ieri Obama.
Il suo messaggio è chiaro: attenti alla destra radicale che si è impossessata del partito conservatore e che rischia di fare disastri col suo integralismo anti-Stato, fino al punto di opporsi anche alla modernizzazione di grandi opere «repubblicane» come la rete autostradale varata 60 anni fa da Eisenhower. Da oggi i pilastri del suo discorso — rilancio dell’America manifatturiera, sfida dell’indipendenza energetica, sforzo per rilanciare l’innovazione e preparare i giovani ai lavori del futuro — diventano argomento elettorale in un viaggio di tre giorni nell’America che produce: a Cedar City e Phoenix a parlare di industria, a Denver e Las Vegas di energia e ad Ann Arbor, in Michigan, di università .
Massimo Gaggi


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