Nel cuore delle città  siriane in rivolta tra raffiche di mitra e spie del regime

by Editore | 24 Gennaio 2012 8:08

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HOMS — Se è vero che ogni rivoluzione ha un mito fondativo, quella siriana lo riassume nei 18 ragazzini di Deraa. Lo favoleggiano dovunque nelle piazza insanguinate del Paese lacerato dalle violenze. Negli ultimi sei giorni ce lo hanno raccontato sempre gli attivisti delle sommosse nelle zone più calde. Ieri è accaduto a Homs. «Le prime mobilitazioni di massa qui sono cominciate tra febbraio e marzo dell’anno scorso, quando si venne a sapere che 18 alunni delle scuole superiori di Deraa, non lontano dal confine con la Giordania, erano stati arrestati dalle forze speciali del presidente Bashar Assad per aver scritto slogan sui muri inneggianti alla Primavera araba. La nostra rabbia è cresciuta allora col diffondersi delle notizie di torture, e soprattutto con le dichiarazioni offensive di Atef Najib, capo delle forze di sicurezza e cugino di Assad, il quale disse pubblicamente alle famiglie che dimenticassero i loro bambini. E anzi, se ne avessero voluti di nuovi, che portassero le mogli nelle caserme: ci avrebbero pensato i suoi uomini a ingravidare le donne», ricorda Hassan, uno studente incontrato presso la Piazza dell’Orologio, dove a metà  aprile vennero massacrati centinaia di manifestanti. Qualcuno sosteneva ieri fossero persino 500.
La novità  è che la gente parla, vuole raccontare. Nulla a che vedere con la cappa oppressiva di paura censurata che dominava sino a un anno fa. Nella città  vecchia di Damasco un giovane negoziante di antichità  afferma che il regime ha ormai «i mesi contati». Quale dittatura può sopravvivere al prezzo di massacrare la sue gente? chiede provocatorio indicando il giornalaio all’angolo come «un vecchio spione dei servizi segreti». La cosa curiosa è che adesso lo «spione» viene da lui per spiegare che non dirà  nulla del nostro incontro. «Vedi? Ha paura, segno che il sistema comincia a sfaldarsi. Per la prima volta in 40 anni gli apparati del regime tremano, sono confusi». Le migliaia di morti ad Hama nel 1982 hanno cessato di essere un tabù. Una volta bastava bisbigliare il nome Hama in modo sospetto per essere arrestati, magari sparire per sempre. Ieri persino Joseph, un medico assiro filo-Assad con l’ambulatorio a Hamidia, noto quartiere cristiano di Homs, sosteneva: «Certo che a Hama sono morti oltre 20.000 sunniti, magari anche 30.000, nemici del regime. E allora? Lo Stato deve difendersi contro chi vuole danneggiarlo e imporre l’estremismo islamico». E Gemma Makdisi, melkita 38enne professoressa di inglese nel liceo locale, chiedeva con le lacrime agli occhi ai giornalisti stranieri che «per favore» la smettessero di raccontare «cattiverie» sul nostro «umano presidente che rappresenta l’unica garanzia contro i wahabiti, Al Qaeda e chi vuole imporre il velo per le donne». Vicino a lei il proprietario sunnita di un negozio di elettrodomestici plaudiva per contro alla necessità  che la dittatura cadesse presto. Ma al sibilo minaccioso dell’ennesima raffica di mitragliatrici nelle vicinanze aggiungeva: «Le proteste devono assolutamente restare pacifiche. Ne ho abbastanza delle azioni del nuovo Esercito siriano libero, composto da disertori delle forze armate regolari. Non fanno altro che attizzare la repressione violenta del regime, che enfatizza gli effetti drammatici delle scaramucce per criminalizzare l’intero movimento per la democrazia». 
Anche la questione dello storico braccio di ferro tra la minoranza alawita (una setta sciita) legata alla famiglia presidenziale e la grande maggioranza sunnita è ormai entrata di forza nel lessico nazionale. «Gli alawiti ci massacrano!», denunciano i ragazzi armati. È la fine della propaganda baathista, che nascondeva gli antichi odi settari in nome del nazionalismo unitario e però ignorava il malcontento diffuso contro i privilegi dei circoli legati alla dittatura.
Le visite sui luoghi dello scontro rivelano così anche un Paese lacerato, impaurito. Homs è ormai una città  divisa in due. Alle 14 la gente si rintana nelle case, i tagli alla corrente elettrica sono la norma. I quartieri misti hanno vissuto una vera e propria pulizia etnica. Gli alawiti si concentrano in quelli di Zahara, Arman, Majriin, Sabir. Di fronte a loro, spesso muro contro muro, i sunniti trincerati rispettivamente a Jibi Jandal, Ashiri, Der Balbek, Qaldi.
A Deraa le violenze sono quotidiane, quasi sempre verso l’imbrunire. Ma il venerdì le manifestazioni sono ormai un rito collegato dopo mezzogiorno all’uscita dei fedeli dalla moschea vecchia 900 anni di Al Omari. Le prime manifestazioni in marzo furono guidate dal popolare sceicco Al Saiasnah. «È il nostro capo storico. Ma la polizia ha ucciso un suo figlio, poi lo hanno arrestato per sei mesi. Una volta liberato, hanno minacciato di uccidere il suo secondo figlio. Lui allora ha accettato di rilasciare alla televisione di Stato una dichiarazione di sostegno ad Assad. E da allora tace, non viene più neppure alla preghiere del venerdì», raccontano i due ventenni che, con la promessa dell’anonimato, accettano di accompagnarmi nel quartiere di Naslet al Balad, dove si trova l’austero edificio in pietra nera vulcanica circondato da postazioni militari difese da sacchetti di sabbia e fili spinati. 
I cortei partono dalla piccola scuola religiosa Hamzi Ul Al Abbas, scendono verso il letto di un torrente in secca e vengono regolarmente confrontati dalle forze speciali della Shabiha (le milizie filogovernative) nei pressi un ponticello circondato da pali della luce visibilmente danneggiati dalle pallottole. «Voi giornalisti non dovete assolutamente credere alle menzogne di questa dittatura fascista e corrotta. Ci ammazzano, ci torturano ogni giorno. Con le loro azioni hanno annullato qualsiasi possibilità  di soluzione negoziata della crisi. Se anche noi vivi accettassimo di parlare con Assad e i suoi scagnozzi, sarebbero i nostri morti a uscire dalle tombe per implorarci di non trattare con i loro assassini», quasi grida nella foga l’anziano proprietario di un negozio di generatori che si dilunga nel descrivere cosa avviene ai prigionieri feriti. «Un mio cugino era stato colpito alle gambe. Lo hanno caricato su di un Suv. Tre ore dopo era un povero cadavere violentato, con i genitali gonfi, insanguinati e abbandonato in una discarica». Contro di loro il governatore Mohammad Khaled al Hanunus, sostituito dal regime dopo che il suo predecessore in aprile aveva voluto il massacro a sangue freddo di oltre 160 manifestanti, lancia parole di fuoco contro i ribelli: «Sono terroristi pagati da Stati Uniti e Israele. Vogliono il male della Siria. Ma li batteremo. Anzi, sono già  finiti».
Tutto diverso lo scenario tre giorni fa a Zabadani, la cittadina di 35.000 abitanti interamente sunnita una trentina di chilometri a nord di Damasco, appena prima del confine con il Libano, dove la ribellione sostiene di aver scacciato manu militari le forze governative. In realtà  i soldati della temibile Quarta Brigata sono appostati tutto attorno sul semicerchio di montagne bianche di neve. Nel centro i ragazzi della rivolta — ma anche adulti, anziani, donne — hanno piantato una sorta di abete di Natale con tanto di palline colorate e striscioni con i nomi di una ventina dei loro morti. Nella piccola piazza troneggia la bandiera della Siria che negli anni Quaranta si era liberata dal giogo del regime mandatario francese. «Abbiamo quattro cliniche clandestine, nessuno dei nostri feriti può recarsi negli ospedali statali. Chi lo fa viene arrestato immediatamente e sparisce», spiega un giovane volontario medico. La paura maggiore è che Damasco possa invitare la milizia sciita libanese dell’Hezbollah a dare manforte ai soldati. «Noi non siamo terroristi! Vogliamo libertà  e democrazia. Dite al mondo che non siamo terroristi», grida un gruppo di ragazzine sventolando bandiere. Ma i pochi giovani armati (hanno comprato i kalashnikov al mercato nero: costo unitario 2.000 dollari) non si fanno illusioni: «Tra poco l’esercito si riorganizzerà  e rioccuperà  Zabadani, per noi sarà  la morte certa». 
Situazione molto simile a Duma. Il villaggio (80.000 abitanti) posto alle periferie orientali della capitale è stato al cuore delle violenze piu recenti. Posti di blocco ovunque, cecchini sui palazzi più alti, pattuglie lealiste che si aggirano per le strade deserte con il colpo in canna e mitra altezza uomo. I rivoltosi sostengono di aver completamente «liberato» Duma. Ma non è così. I soldati controllano la zona centrale della municipalità , l’ospedale, il cimitero e le periferie. Di notte è terra di nessuno. Porte e finestre sono chiuse dalle tre del pomeriggio alle sette di mattina. Scarseggia il cibo, scuole serrate da una settimana. Secondo il locale comitato rivoluzionario i morti degli ultimi tre giorni sarebbero una quindicina. «Non ci lasciano neppure seppellire i nostri cari», racconta una decina di uomini che mi accoglie con tè e biscotti in un appartamento dalle persiane chiuse e rischiarato dalle candele. Le raffiche isolate sono continue, alcune molto vicine. Al piano di sopra un bambino piange in continuazione.

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