Movimenti marxiani per capire la crisi

by Editore | 27 Gennaio 2012 7:19

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Misurarsi con la teoria marxiana della crisi è invece esercizio praticato da pochi – da un ventennio a questa parte – anche se dà  decisamente migliori soddisfazioni intellettuali. Soprattutto in tempi di crisi.
Riccardo Bellofiore lo fa da anni e ora, con due agili libretti pubblicati per i tipi di Asterios, prova a sintetizzare sia l’aspetto propriamente teorico (La crisi capitalistica, la barbarie che avanza), sia quello di stretta attualità  (La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra, euro 7 ciascuno).
Sul primo aspetto, Bellofiore cerca di trarre il meglio dalle due impostazioni prevalenti in campo marxista: quella che privilegia come causa della crisi la famosa «caduta tendenziale del saggio del profitto», oggetto di un apposito capitolo nel III libro de Il Capitale; e quella, più contaminata dall’influenza keynesiana, che privilegia l’insufficiente «realizzazione», virando dunque verso l’eredità  luxemburghiana (il «sottoconsumo» come causa). L’approdo è quindi logico: «ritengo che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto, ma che questa vada interpretata come una metateoria, che ingloba al suo interno le altre e diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale». È uno sforzo di ricondurre il molteplice alla comune radice, superando il rischio di sterilizzare la potenza viva del contributo di Marx – tipico di chi ne esalta unilateralmente una sola «formula» – in un «cantiere aperto» vivace come un deposito di pietre disponibili ogni uso.
Affrontare il capitalismo significa infatti cercare di ricostruire nel pensiero un’immagine in movimento, perché è un oggetto instabile, com’è giusto per «un’economia di mercato e monetaria», tendenzialmente «anarchica». Che «dissocia le vendite dai successivi acquisti» tramite il credito, al punto che ogni tentazione di «tesoreggiamento può interrompere la sequenza per cui l’offerta trova il proprio sbocco sul mercato».
Instabilità  e possibilità  della crisi vanno a braccetto; e quando l’avanzare barcollante del capitale incontra limiti per varie ragioni insormontabili, allora crisi diventa necessaria. Di qui la superiorità  teorica marxiana, che Bellofiore attraversa sottolineando i molti sviluppi successivi, anche non «ortodossi» (Sweezy, Minsky, ecc), che si sono misurati con le aporie del neoliberismo trionfante (basti pensare a come è stata «risolta» la prima ondata di questa crisi – regalando soldi pubblici alle banche private – con il neoliberismo pronto a pretendere un paradossale «socialismo per ricchi»). Fin quando la «sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito» non produce – e siamo nel presente – la triade protagonista dell’oggi: il «risparmiatore maniacale-depressivo», il «consumatore indebitato» e il «lavoratore traumatizzato».
Il secondo testo è molto interno alle dinamiche di questa concretissima crisi, ma senza smarrire la bussola senza la quale dati ed eventi restano inspiegabili. Qui le pigrizie teoretiche della «sinistra» – specie italiana – fanno tutt’uno con le sue cantonate politico-tattiche (nessuno escluso). E la polemica sul «social-liberismo» (sì alla globalizzazione, ma corretta con un po’ più di «redistribuzione»), imperante nella gauche, torna arricchita di argomenti. Che convergono nell’assenza di visione in grado di andar oltre il basso orizzonte del presente, tra il timore che l’intera costruzione europea possa crollarci sulla testa e la speranza di trovare «una via d’uscita» andando sostanzialmente a tentoni e con gli occhi chiusi.
Il saggio conclusivo, scritto a quattro mani con Ian Toporowski, si misura direttamente con il problema dell’«uscita». Che obbligherebbe a «coniugare una politica monetaria di rifinanziamento dei disavanzi degli stati e di mutualizzazione del debito pubblico europeo (gli eurobond, n.d.r.), una reflazione trainata da una spesa pubblica capace di modificare la composizione della produzione, una socializzazione in profondità  delle economie».
Gli interessi che si frappongono a questa soluzione «socializzante» sono potenti, prepotenti e fin qui inamovibili. In ogni caso, «privati». E se qualcuno ravvisa nella proposta di «reflazione trainata dalla spesa pubblica» una riedizione del buon vecchio input rooseveltiano, non soprenderà  Bellofiore: che infatti la definisce un «new deal di classe». Non è una postilla «ideologica», ma operativa: cosa produrre, quanto e come, per chi e perché.

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