MINGHETTI, SELLA, SPAVENTA E L’AZIONE DEL GOVERNO DI OGGI

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La prevalenza, inevitabile, dei temi economici nella strategia del governo Monti e anzi il dilatarsi di questi temi e il loro intrecciarsi con gli interessi complessivi dell’Europa, sui quali ha richiamato l’attenzione Eugenio Scalfari sottolineando una delle prospettive dell’azione del governo (“L’Italia guida la battaglia salva-Europa”, la Repubblica 8 gennaio), non ci impedisce di congiungere questa prospettiva ad una fase delicata della nostra storia che vide, subito dopo l’unificazione dell’Italia, il gruppo dirigente liberale, politicamente moderato, svolgere un programma eccezionale e progressivo di trasformazione sociale. I problemi erano enormi e da qualche parte si doveva cominciare. La politica finanziaria parve allora l’obbiettivo primario. Infatti, come ha notato Federico Chabod nel 1951, «il fallimento finanziario avrebbe significato, in quel periodo storico, la fine dell’Italia unita; e nessun prodigio in camicia rossa e nessuna abilità  diplomatica alla Cavour avrebbe più potuto rimettere insieme uno Stato che si fosse dimostrato incapace di assicurare la propria vita finanziaria di ogni giorno. Questo dissero, in quegli anni, molto chiaramente e a più riprese, uomini politici e giornali stranieri, amici e nemici dell’Italia». Di questo gli italiani più consapevoli erano assolutamente convinti: «In politica, questione unica: la finanza». Era l’avvertimento di Silvio Spaventa nel 1867.
Ebbene, questo momento difficile fu il quindicennio della Destra storica che coincise con il complesso programma di un governo che mentre doveva amministrare quella che nel 1907 Croce chiamava «la ricca eredità  ideale della rivoluzione italiana» (e sulle labbra di Croce il termine rivoluzione doveva avere un significato profondo), doveva costruire le strutture e le infrastrutture dello Stato (a cominciare dalle ferrovie, strade, porti, scuole, ospedali) facendo del paese una entità  non casuale né periferica. Tutto questo, in una Europa non tranquilla: nel 1866 e nel 1870 vi furono ben due guerre, con la prima ( l’Italia e la Prussia contro l’Austria) bene o male, il governo Lamarmora strappò il Veneto all’Austria, e al termine della seconda (la guerra franco-prussiana) il governo di Giovanni Lanza e Quintino Sella abbatté il potere temporale della Chiesa e proclamò Roma capitale. E intanto mentre si ripercuotevano anche in Italia le conseguenze agricole e tariffarie della fine della guerra civile americana. Forse si precisa meglio quella cornice internazionale ricordando anche che la Francia, l’Inghilterra, la Germania, la Russia zarista (dove proprio nel 1861 era stata abolita la servitù della gleba), attraversavano da tempo crisi politiche e costituzionali ed erano agitate da richieste di riforme, da lotte di classe, da latenti conflitti internazionali, da gare coloniali, da esigenze di unificazione nazionale (la Germania).
Anche allora la Francia (soprattutto dopo la caduta nel 1870 di Napoleone III) e la Germania unita (nel 1873, ricevendo a Berlino il nostro presidente del consiglio Marco Minghetti il cancelliere Bismarck lo esortava a debellare ad ogni costo il disavanzo: «il governo italiano deve rivolgere tutte le sue cure a togliere di mezzo tale nemico…»),erano alleati europei incerti anche se sicuri forse più dell’Inghilterra, che venti anni prima aveva aiutato il nostro movimento nazionale, e che intendeva ora proclamare uno “splendido isolamento”. In questo quadro europeo, l’Italia liberale non aveva perciò alcuna alternativa o scorciatoia: doveva essere governata con mano ferma e lo Stato inaugurato nel 1861 doveva apparire stabile e tecnicamente preparato al “governo totale” della cosa pubblica. Il libero scambio e il vitale sistema parlamentare inglese erano, certo, sempre presenti nel nostro dibattito politico, ma l’Inghilterra ebbe una influenza limitata e aveva in quegli anni questioni gravi cui pensare: i dissensi tra lo Stato e la Chiesa anglicana (con le sue enormi ricchezze fondiarie) e i problemi della proprietà  terriera irlandese, la richiesta di riforme e di diritti elettorali, civili, sindacali, di controllo dei danni dell’industrialismo (il Capitale di Marx apparve a Londra nel 1867).
Ma la specificità  dei problemi italiani attuali pare rafforzare l’analogia storica («…la politica senza la storia è uno che cammina senza guida…», diceva sorridendo Manzoni nei Promessi sposi) tra lo “spirito delle leggi” che ispira l’agire del governo Monti e le iniziative dei primi governi della Destra storica. Su queste pagine, Scalfari il 20 novembre ha indicato quella analogia in una riflessione (“Il governo tecnico e la Destra storica”) che quasi quotidianamente trova conferme e ragioni di ulteriori meditazione e confronti. «…a distanza di 150 anni – scriveva Scalfari – la Destra di Minghetti, Sella e Spaventa rappresenta un perfetto riferimento all’opera che si propongono Mario Monti e il suo governo». 
Questi tre nomi sono, come è noto, rappresentativi di una particolare visione liberale dello Stato, della sua autorità  culturale, della sua presenza attiva e creativa nei processi di crescita economica e civile, del suo ruolo di “direzione” sociale della nazione attraverso un potere esecutivo efficiente e determinato, con strumenti che, dal punto di vista teorico, contrastavano con i fondamenti stessi del pensiero liberale che escludevano le “intrusioni governative” nel libero gioco del mercato. Certo, le “economie fino all’osso” di Sella ministro delle finanze comportavano una politica fiscale e progetti di imposta, quale ad esempio quello sulla ricchezza mobile, alla cui elaborazione collaborò perfino un liberista puro come Francesco Ferrara. Il problema poi del debito pubblico e del disavanzo del bilancio dello Stato divenendo sempre più drammatico non impedirà  affatto l’esecuzione di imprescindibili opere pubbliche che realizzandosi sotto il segno della prevalenza dell’interesse “pubblico” davano l’immagine di un potere politico che si identificava totalmente con il centralismo statale e con il dirigismo. Cominciava da qui la critica allo statalismo che tanto sviluppo avrà  nella successiva storia d’Italia? Non è facile rispondere, ma le critiche non impedirono al governo di Marco Minghetti (un politico che viene invece, ancora oggi, identificato come rappresentante di una visione non centralistica, anzi quasi federalistica dello Stato) non solo di dare la stretta finale alla crisi finanziaria giungendo nel 1876 al miracoloso pareggio del bilancio (con cui il compito della Destra si concluse), ma di essere stato autore, anche con la collaborazione dialettica di Sella, e tra le critiche della “opposizione meridionale” e della Sinistra liberale, di un’opera rigorosa intesa a “far fruttare le imposte”. 
Vediamo, ad esempio, alcune misure prese da Minghetti per ridurre a partire dal ’73 il disavanzo che era di 130 milioni di lire (una cifra enorme) e sforzandosi di aumentare le entrate: imposte sulla ricchezza mobile, riforme sulla tassa di registro e di bollo e sulla tassa di assicurazione, nullità  degli atti non debitamente registrati, abolizione delle franchigie postali, tassa sulle operazioni di borsa e sul riconoscimento di contratti a termine, tassa sul diritto di statistica delle dogane, tassa sulla fabbricazione degli alcool e della birra, tassa sui trasporti ferroviari, estensione della privativa del tabacco alla Sicilia, tassa sui pesi e sulle misure, e l’elenco potrebbe continuare a lungo e comprenderebbe anche l’impopolare tassa sul macinato, voluta anni prima da Sella che Minghetti perfezionò per renderla meno odiosa. Comunque il pareggio fu raggiunto, è bene attualizzare anche questo, contestualmente al progetto di “una legge rigorosa” di pubblica sicurezza proposta in Parlamento per «colpire le sette, onde sbucano i sicari, la camorra, la mafia e tutte queste manifestazioni della barbarie», senza dover ricorrere a leggi eccezionali e con l’obbiettivo di colpire i criminali e, punto non meno importante, quella schiera di italiani «meno audace ma non meno insidiosa che avversa non solo il reggimento presente, ma l’unità  della patria». Questa era la tempra degli uomini della Destra storica alla quale fu fondamentale l’apporto di un liberale come Silvio Spaventa, mente teorica di una idea di Stato come “coscienza direttiva della nazione”, cominciando con l’introduzione di una giustizia amministrativa (a lui spetta il merito dell’istituzione della Quarta sezione del Consiglio di Stato che doveva esaminare i reclami contro gli atti amministrativi) la cui efficienza egli studiò ispirandosi alla concezione tedesca dello Stato di diritto. E a Spaventa spetta di avere immaginato le ferrovie come la chiave di volta della costruzione di uno Stato moderno, del funzionamento del suo mercato, della mobilità  e efficienza della vita produttiva. Un settore così strategico non poteva essere gestito dai privati. Ed ecco Spaventa dichiarare alla Camera nel 1876: «Se lo Stato non concorresse con l’opera sua alla creazione dell’industria ferroviaria, essa in nessun modo potrebbe sorgere e vivere. Abbandonare l’esercizio della ferrovia alla speculazione di pochi, si fa di questa pubblica utilità  l’utilità  e il vantaggio di pochi. Da quest’ordine di ragioni io attingo la più profonda persuasione che l’esercizio delle ferrovie negli Stati moderni non può essere affidato razionalmente che ai governi».


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