by Editore | 15 Gennaio 2012 10:33
A prescindere dai motivi per cui sono state fatte queste rivolte, nell’arco di un anno sono caduti con destini diversi tre dittatori: Zine El-Abidine Ben Ali (da 23 anni al potere in Tunisia), Muḥammad ḤosnÄ« Mubarak (da 30 anni “Faraone” in Egitto) e Mu’ammar Gheddafi (da 42 anni Rais dellaLibia), ma è chiaro che non basta mettere in piedi un governo di transizione e indire elezioni per traghettare questi paesi verso la democrazia. Per Amnesty International, infatti, la repressione e la violenza di stato oggi non sono scongiurate e sono destinate a continuare a flagellare il Medio Oriente e l’Africa del Nord anche nel 2012, “se i nuovi governi della regione e le potenze internazionali non si dimostreranno all’altezza dei cambiamenti richiesti dalla società civile”.
È quanto ha dichiarato lunedì scorso l’ormai cinquantenne associazione per la difesa dei diritti umani diffondendo un rapporto di 80 pagine dal titolo Un anno di rivolta. La situazione dei diritti umani in Medio Oriente e Africa del Nord (.pdf) e che fa il punto sui sensazionali avvenimenti del 2011. Un anno in cui, per Amnesty, “i governi della regione hanno mostrato, da un lato, di essere disposti a ricorrere alla violenza estrema per cercare di resistere alla richiesta senza precedenti di profondi cambiamenti; e dall’altro, i movimenti di protesta hanno fatto vedere di non avere la minima intenzione di voler abbandonare i loro ambiziosi obiettivi o di accontentarsi di riforme di facciata”.
In tutta la regione i movimenti di protesta, guidati in molti casi dai giovani e che hanno visto le donne svolgere un ruolo centrale, “hanno dimostrato di avere un’incredibile resistenza di fronte a una repressione a volte furibonda e di non essere disposti a farsi prendere in giro da riforme che modificherebbero poco o nulla il modo in cui sono stati trattati dalla polizia e dalle forze di sicurezza. Questi movimenti vogliono cambiamenti concreti nel modo in cui sono governati e pretendono che chi in passato ha commesso violazioni dei diritti umani sia chiamato a renderne conto” ha dichiarato Philip Luther, direttore ad interim per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International.
Sembrerebbe però che ”i costanti tentativi di offrire cambiamenti di facciata, di ricacciare indietro i progressi ottenuti dai manifestanti o semplicemente di brutalizzare e sottomettere le loro popolazioni, indichino che l’obiettivo di molti governi è ancora la sopravvivenza” ha proseguito Luther.
 Nonostante il grande ottimismo diffusosi in Africa del Nord con la caduta dei regimi longevi di Tunisia, Egitto e Libia, Amnesty International ha fatto notare, infatti, come “questi successi non sono al momento stati cementati da profonde riforme istituzionali, tali da evitare il ripetersi dello stesso genere di violazioni dei diritti umani del passato”.
A pagarne le conseguenze sono ancora i civili a cominciare da quelli libici, che due mesi dopo la cattura e il linciaggio di Gheddafi, si trovano sull’orlo di una nuova guerra civile. L’allarme di questi giorni è dello stesso presidente Jalil: “La Libia rischia di precipitare in una guerra civile se non riuscirà a tenere sotto controllo le milizie rivali che continuano a fronteggiarsi nel paese”, ha denunciato da Bengasi dopo la furiosa battaglia scoppiata a Tripoli il 3 gennaio scorso e costata la vita, secondo Al Arabiya, a 10 persone. Inoltre come ha documentato Human Rights Watch sono ancora numerosi i casi di maltrattamenti sui prigionieri, in particolare sui libici con la pelle scura e sugli africani sub-sahariani, molti dei quali sono stati picchiati e torturati con scariche elettriche nelle prigioni allestite dal Consiglio nazionale di Transizione (Cnt) e “detenuti in centri di prigionia improvvisati controllati dalle brigate rivoluzionarie, senza alcuna prospettiva di essere sottoposti a un’idonea procedura giudiziaria”.
Anche in Egitto la situazione rimane critica e Amnesty International teme per questo che nel 2012 il Consiglio supremo delle forze armate (Scaf) potrebbe tentare ulteriormente di limitare le possibilità dei cittadini egiziani di protestare ed esprimere liberamente le loro opinioni. Lo Scaf ha, infatti, ripetutamente promesso di dare seguito alle richieste della “rivoluzione del 25 gennaio” ma, secondo il rapporto di Amnesty International “si stava meglio quando si stava peggio”.
 “L’esercito e le forze di sicurezza hanno violentemente soppresso le proteste, causando almeno 84 morti negli ultimi tre mesi del 2011. Sono continuate le torture durante la detenzione e le corti marziali hanno processato più civili in 12 mesi che nei 30 anni precedenti – si legge in Un anno di rivolta– Alle donne sono stati inflitti particolari trattamenti umilianti, con l’obiettivo di farle desistere dalla protesta”. A dicembre, inoltre, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nelle sedi di varie organizzazioni non governative locali e internazionali in quello che è apparso un tentativo di azzittire le critiche nei confronti delle autorità .
 Un episodio che nemmeno durante l’era del deposto presidente Mubarak si era mai verificato.
Similmente se la rivolta in Tunisia ha prodotto significativi miglioramenti sul piano dei diritti umani, un anno dopo sono in molti a ritenere che il cambiamento stia procedendo con troppa lentezza. Le famiglie delle vittime della rivolta sono ancora in attesa della giustizia.
Dopo le elezioni di ottobre, si è formata una coalizione di governo e Moncef Marzouki, attivista per i diritti umani ed ex prigioniero di coscienza di Amnesty International, è stato nominato presidente ad interim.

Ma per l’associazione Cooperazione Italiana Sud-Sud (Ciss) “non si può, d’altro canto, dimenticare l’alto tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile […] e l’influenza (anche economica) che i movimenti islamisti stanno guadagnando: socializzare la popolazione riguardo ai diritti umani e alla cittadinanza attiva e, al contempo, fornire opportunità di formazione professionale e impiego è oggi uno strumento fondamentale per controbilanciare il potere di attrazione dei gruppi religiosi estremisti”.
Altrove nella regione, invece, i governi sono stati fermamente determinati a rimanere aggrappati al potere con costi altissimi in termini di vite.
L’esercito e i servizi segreti dellaSiria sono tutt’ora responsabili di uccisioni e torture, mentre in Yemen, lo stallo intorno alla transizione dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh ha causato ulteriori sofferenze alla popolazione con “oltre 200 persone uccise nelle proteste e altre centinaia morte negli scontri armati”.
In Bahrein, come in Arabia Saudita ancora scossa dalle proteste soprattutto nell’est del paese, le violazioni dei diritti umani collegate alle proteste avevano fatto sperare che il paese potesse iniziare a girare pagina, ma la serietà dell’impegno del governo ha registrato lo scorso 4 gennaio l’ennesima vittima tra i manifestanti.
”Infine in Iran – ha spiegato Amnesty – il governo ha continuato a stroncare il dissenso, rafforzando i controlli sulla libertà d’informazione e prendendo particolarmente di mira giornalisti, blogger, sindacalisti indipendenti e attivisti politici.
Ma le responsabilità di questo stato di cose, sempre secondo il rapporto di Amnesty, va doverosamente diviso con le potenze internazionali e gli organismi regionali quali l’Unione africana, la Lega araba e l’Unione europea, che “non hanno saputo cogliere la portata della sfida posta ai regimi repressivi della regione”. “Il sostegno dei poteri mondiali alle popolazioni del Medio Oriente e dell’Africa del Nord è stato esemplarmente irregolare – ha concluso Luther – Tuttavia, le persone comuni non ci stanno a veder fermata la loro lotta per la dignità e la giustizia, ed è questo che ci dà speranza per il 2012”.
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