Massacri e ingiustizie ora l’Australia si scusa “Pari diritti agli aborigeni”

by Editore | 22 Gennaio 2012 11:35

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MELBOURNE – E finalmente, dopo due secoli e mezzo di stermini, ingiustizie, discriminazioni, il gran giorno è arrivato. Essere un aborigeno, uno di quelli che per quarantamila anni abitò questo continente, è permesso.
Lo ha dichiarato ufficialmente il primo ministro, guarda caso donna, Julia Gillard, seduta fianco a due personaggi che parevano inventati da un buon sceneggiatore: alla sua destra, con un barbone bianco e un cappellaccio multicolore, l’aborigeno Patrick Dodson, e alla sinistra, Mark Leibler, discendente ebreo di una famiglia belga che emigrò alla vigilia della seconda Guerra Mondiale per sfuggire i nazisti. Una commissione di ben ventidue membri, tra i quali indigeni, uomini politici e esperti legali, ha presentato un progetto di legge, che dovrebbe sanare una piaga sempre più vasta e purulenta dal giorno in cui la nave dell’ammiraglio Cook mise l’ancora in quello che era allora chiamata Porth Phillip, e di dove oggi vi scrivo, comodamente seduto nel più moderno e vasto tennis club del mondo. Nel ricevere la richiesta che ponga, almeno ufficialmente, termine all’umano disastro, la signora Gillard ha affermato che «un referendum ci consentirà  di avere coscienza del nostro passato, di permettere una modifica costituzionale, per un futuro unito e più riconciliato che mai». 
Le vicende degli aborigeni, sino a ieri spregiativamente chiamati “abos”, mi hanno afflitto non meno di quelle degli ebrei dal giorno in cui qui sbarcai, giovane cronista, proprio a Melbourne. I poveri discendenti dell’etnia che aveva vissuto secondo strutture mentali e religiose del tutto estranee agli invasori, non facevano che mendicare in qualche periferia degradata, o si poteva vederli mentre tendevano la mano per una bottiglia di birra. Decimati non solo dall’alcol, ma da batteri con i quali gli invasori li avevano mortalmente contagiati.
Durante le ripetute visite in questo paese ebbi anche l’occasione di un viaggio aereo in un villaggio, e non finii di inorridire, alle condizioni di vita nelle quali vidi costretti gli abitanti. 
La loro storia attraversò varie fasi, che passarono traverso un iniziale acquisto delle loro terre, seguito da autentici espropri, e da più di un massacro, quando qualcuno di loro si permise un tentativo di resistenza. Esemplare tra tutti, il caso della Tasmania, in cui la reazione di un aborigeno in difesa di una donna portò alla costituzione di una catena di coloni che, dal sud al nord, setacciò l’intera isola, uccidendo quasi tutti gli aborigeni, ad eccezione di una loro rappresentante, Treganini, che divenne una sorta di reperto vivente, mostrata quasi fosse la tigre della Tasmania, un animale ormai scomparso.
Attraverso maggiore comprensione, senso di colpa, iniziative parlamentari e lobby umanitarie, la storia della sventurata etnia ha subito una pur lenta evoluzione positiva, scandita da successi di personaggi pubblici, quali il pittore Namatjira, il primo a figurare nell’elenco degli australiani celebri, senza paradossalmente possederne la nazionalità . E, in seguito, dopo la concessione del diritto di voto, nel 1967, sono giunte le affermazioni della tennista Evonne Goolagong, vincitrice a Wimbledon e, della medaglia d’oro delle Olimpiadi di Sydney, Kathy Freeman. Si qui, forse, l’istante più significativo della triste storia era rappresentato dalle pubbliche scuse del premier Kevin Rudd, nel 2008.
Le risultanze, e l’attuale proposta della commissione diretta da Liebler e Dodson, sottolineano che centododici anni sono trascorsi dall’attuale Costituzione, forse un po’ obsoleta, in cui si menzionava la volontà  di sei Stati australiani di formare una nazione. «Nel servire al meglio la maggior parte degli australiani, ha fatto torto agli aborigeni», afferma il documento.
C’è ora da sperare che non sia necessario un referendum per far sì che l’unica etnia, quella degli antichi padroni del suolo detto australiano, venga dichiarata ufficialmente comproprietaria del continente.

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