Martha Reeves: “Io, una del ghetto che ce l’ha fatta”

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Cinquant’anni fa il mondo era suo. Le bastava una nota per essere riconosciuta. Quando hai inciso una canzone come Dancing in the street sei nell’Olimpo del pop. La ripresero anche Mick Jagger e David Bowie al Live Aid, vent’anni dopo, ed era ancora un inno. Oggi Martha Reeves, che domani sera terrà  due concerti al Blue Note di Milano, ha 71 anni, è una sopravvissuta del glorioso Motown sound, le sue Vandellas furono la punta di diamante dell’etichetta di Berry Gordy dal 1962 al 1967, insieme a Marvelettes, Miracles, Four Tops, Temptations e Supremes; i nuovi idoli neri che facevano impazzire i bianchi, il definitivo crossover della soul music. Ora Martha non canta più in sale da tremila posti ma ha un fitto calendario nel circuito di prestigiosi jazz club. 
La incontriamo al Ronnie Scott’s di Londra. Divora la sua zuppa di verdure mentre in sottofondo Chet Baker canta I fall in love too easily. Il locale è ancora vuoto, ma durante la performance (le altre due Vandellas sono coriste reclutate in Europa) non ci sarà  un tavolo libero. «Tutto accadde all’improvviso», racconta l’artista ripensando agli anni di gloria. «Al contrario di altri artisti Motown facemmo un po’ di gavetta prima del grande successo. Ricordo che ero in casa a lavare i piatti quando alla radio trasmisero Come and get these memories, per poco non svengo, mi misi a urlare e a saltellare. Mia madre mi rimproverò: il successo va e viene. A me tutto sembrava inarrestabile. Il giorno dopo ero una star».
E’ cresciuta a Detroit, quindi ha un chiaro ricordo degli esordi della Motown, la casa discografica che scatenò una rivoluzione in città  e nel mondo della musica.
«Quelle canzoni diventarono la colonna sonora della nuova generazione, “The sound of young America” lo chiamarono, il suono dell’America giovane. E tutto iniziò nella casetta di Berry Gordy. La prima volta che ci misi piede pensai di aver sbagliato indirizzo. Cucina, salotto, bagno e studio di registrazione: era tutto lì. William Stevenson, un talent scout, mi aveva raccomandato per un provino. Pensavo di andare in paradiso – la Motown aveva già  artisti di punta come Mary Wells e Marv Johnson – invece mi trovai in un minuscolo ufficio dove tutti facevano tutto. Donna delle pulizie, segretaria e corista: Gordy m’ingaggiò a tempo pieno! Dodici ore al giorno. Sempre meglio che lavorare nella tintoria dov’ero prima».
Com’era l’atmosfera lì dentro?
«La chiamavano Hitsville U.S.A, una fabbrica di successi. Si produceva musica ventiquattr’ore al giorno. Una famiglia allargata dove nessuno sbagliava mai un colpo. Marvin Gaye arrivò alla Motown come batterista, solo più tardi avrebbero scoperto la sua voce d’angelo. Dio, com’era bello! Mi presi una bella cotta. Ma lui era proprietà  della sorella del boss, Anna Gordy, guardare ma non toccare». 
Dicono che Gordy si comportasse da padre-padrone.
«Le regole erano ferree. Berry non tollerava nessuna forma di competizione tra gli artisti e incoraggiava costantemente alla collaborazione. Niente era lasciato al caso. Chiunque veniva scritturato doveva seguire un corso preparatorio: dizione, canto e ballo. Eravamo ragazzi del ghetto, non sapevamo come comportarci e Gordy pensava in grande, tour mondiali, apparizioni tv, copertine. Per questo ingaggiò Maxine Powell, insegnante in una scuola di modelle, che ci teneva lezioni di portamento. Ci ripeteva all’infinito: se volete essere rispettate dovete avere classe. Le Vandellas non si sarebbero mai esibite nell’esclusivo Copacabana di New York senza i consigli di Maxine. Fu quella sera che mio padre scoprì un tubetto di pillole nel mio armadietto – eccitanti prescritti da un dottore non vera droga. La prese malissimo; mai più usato niente».
Dancing in the street diventò una canzone-simbolo durante le marce per i diritti civili le manifestazioni del nostro ‘68.
«Per noi era solo una pop song come le altre, furono le circostanze a trasformarla nella colonna sonora della… rivoluzione. Il messaggio era semplice: deponete le armi, abbandonate l’odio, lasciatevi andare alla musica e ballate. Invece improvvisamente diventammo più eversive dei rapper. Non li sopporto, dovrebbero imparare da noi. Non vorrei che i miei nipoti li ascoltassero». 
Lei è nata in Alabama. Che accadde quando si esibì con le Vandellas a Montgomery? Nel 1965 la città  fu teatro di scontri violenti nel corso della prima marcia per i diritti civili.
«All’epoca non ci era neanche consentito di dormire negli alberghi del Sud, passavamo la notte nel pullmino. Niente ristoranti, solo popcorn. Ci chiamavano cagne nere, oppure cioccolatini. In teatro, la polizia pretese di separare i bianchi dai neri con un corridoio salvagente ricavato alla meglio con delle transenne. Quando cantammo Mickey’s monkey l’entusiasmo divenne incontenibile, tutti ballavano, le transenne caddero e il pubblico divenne uno solo. Interruppero la musica. Ma ormai era troppo tardi. Bianchi e neri si tenevano per mano».
Dicono che i rapporti tra lei e Diana Ross non fossero idilliaci all’epoca in cui le Supremes si contendevano il primato con le Vandellas.
«Mettiamola così, a parte la cotta per Marvin Gaye, che ammiravo anche umanamente e spiritualmente, e l’amicizia che mi lega a Stevie Wonder, con gli altri della Motown avevo solo un rapporto professionale. Quando poi l’etichetta, nei primi anni Settanta, si trasferì a Hollywood per cercare di sfondare nel cinema, la magia era finita. Jackson 5 e Commodores sono stati gli ultimi eroi».
Dov’era quando apprese della morte di Michael Jackson?
«Qui a Londra per un concerto commemorativo della Motown. Quel giorno ho pensato a cosa sarebbe stato della mia vita se mio padre non mi avesse trovato quelle pillole nell’armadietto…».


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