Maestri di classe

by Editore | 25 Gennaio 2012 7:47

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L’anno successivo fui convocata ancora in Provveditorato per scegliere la sede provvisoria o, in alternativa, essere a disposizione della direzione didattica di Macomer (in provincia di Nuoro). Scelsi Sindia un piccolo paese tra Macomer e Bosa. 
Si poteva raggiungere anche con la ferrovia, che però effettuava un giro stranissimo, lungo e tortuoso, simile al tracciato di un trenino per bambini; per compiere quel breve tragitto si impiegava una quantità  di tempo decisamente sproporzionata rispetto alla distanza. 
Anche quell’anno decisi quindi di spostarmi in macchina insieme ad altre colleghe. Mi venne assegnata una seconda elementare, classe per la quale ho il ricordo vivo di un bambino in particolare: era già  ripetente sia di seconda che di prima. Non sapeva quasi leggere o formare semplici frasi di senso compiuto e spesso per me era persino difficile tradurre le sue espressioni in dialetto. Il mio compito, pensavo, sarebbe stato insegnargli a leggere, a scrivere e a far di conto quanto prima, perché Antonio (il nome è di fantasia) non avrebbe dovuto sentirsi in difficoltà  nell’acquisizione delle più elementari forme di comunicazione e di relazione. Nei primi giorni di scuola, quando si propongono delle verifiche iniziali, avevo chiesto ai bambini di raccontare con un disegno le loro vacanze e di completarlo con una frase. Antonio scrisse: “IO SONATO CIMICIAIO”, io sono andato al cimitero. Il disegno, poi, era particolare: rappresentava un prato pieno di croci. Non capii subito il senso di quella frase dialettale, ma avvicinandomi al bambino e guadagnandomi la sua fiducia, venni a sapere che aveva un fratello più grande, il quale, quando la mamma lavorava, si prendeva cura di lui portandolo con sé al lavoro, cioè al cimitero, dove lui cambiava posto ai morti: un mondo certo non adatto a un bambino, al quale veniva così sottratta l’età  del gioco, della fanciullezza, della fantasia e della socializzazione con i suoi coetanei. Le sue esperienze e conoscenze erano limitate, povere di stimoli e a scuola era disorientato. 
Ero preoccupata perché quell’alunno viveva una situazione diversa da tutti gli altri. Al mattino iniziavamo le attività  scolastiche scrivendo sul quaderno il nome della località , la data e il giorno del mese. E lui chiedeva sempre: 
«Sindia, maestra?». 
«Sì, Sindia» rispondevo. 
Poi, con il passare dei giorni, di fronte alla sua consueta domanda provai a rispondergli: «Siamo forse a Milano?». 
«No, siamo a Sindia» concordò Antonio. 
«Bene». 
Lui rideva e scriveva sul quaderno. Ogni giorno nominavo una città  diversa (Roma, Torino, Palermo, Bologna) e il gioco, se così si può dire, proseguiva insieme al resto della classe. A quel punto, su mio suggerimento, cominciarono gli stessi suoi compagni a rivolgere domande al bambino: «Siamo a Torino?». 
«No» rispondeva lui ridendo. 
«Siamo a Genova?» gli chiedevano. 
«No». 
E così sino a ricordare tutte le città . Alla fine gli domandavo ancora: «E allora, dove siamo?». 
«Siamo a Sindia, maestra». 
«Bravo». 
E tutta la scolaresca si felicitava con lui. Questa sorta di filastrocca fu utile al bambino perché gli permise di relazionarsi con la classe e di essere al centro dell’attenzione per alcuni minuti; lo disponeva con autostima all’apprendimento. Non mi ricordo ogni dettaglio dell’anno scolastico, ma rivivo la meraviglia di quando, in un certo periodo, gli alunni ebbero la pediculosi. E questo bambino, biondo e con i capelli lunghi, era pieno di pidocchi. Il medico scolastico invitò tutta la classe a usare disinfettanti e a tagliare i capelli, ma lui continuò a venire a scuola come prima. Convocata dal medico, la mamma spiegò che si rifiutava di tagliarglieli perché finalmente suo figlio aveva imparato a leggere e a scrivere. E modificargli il taglio dei capelli poteva fargli sparire “sa intilighenza”. Era un modo di pensare semplice, ma degno di rispetto. Ci volle tanta pazienza per convincere la signora e rassicurarla che Antonio avrebbe continuato a essere bravo, a saper scrivere e leggere anche con i capelli più corti. Infatti alla fine dall’anno imparò a comprendere il senso del racconto e a esprimersi attraverso brevi frasi compiute. La cosa più sorprendente fu che un giorno l’alunno mi regalò una cartina geografica dell’Italia dove c’erano segnate tutte le città  nominate in classe durante l’anno. Questo gesto carico di significati dimostrava l’interscambio affettivo che si era creato tra noi e quando, l’anno dopo, dovetti trasferirmi in un’altra scuola, ero certa che Antonio avrebbe affrontato quel nuovo cambiamento in modo positivo.

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