Ma la lingua non modifica la visione del mondo

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I relatori: è bastato un uomo (io) per far mettere tutta la frase a quel maschile che in italiano si finge neutro. Così la lingua dimostra che di dibattiti sul suo maschilismo ne servono ancora molti. Per evitare l’inghippo avrei dovuto articolare di più e dire che a quel dibattito c’era un relatore e tre relatrici. Sarebbe allora più fine sforzarsi di restare davvero nel neutro: «il dibattito ha avuto quattro partecipanti». Quando si scrive si può, ma quando si parla non è facile ed è invece comune che scappino anche dei «gli» per i «le». Per quanto si speri che non se ne accorga nessuno c’è sempre una signora, normalmente cortese e inflessibile, che chiede il microfono per notificare lo svarione, e mortificarne l’autore. 
Quella volta si parlò poi dei nomi di battesimo usati per le donne al posto dei cognomi o dei cognomi con l’articolo (Alberto Moravia era «Moravia»; Elsa Morante era «la Morante», o «Elsa»); di parole a doppio taglio come «mondano /mondana» o «uomo allegro / donna allegra»; e di altre cose simili. Guardate ora il governo Monti: salvo errore è il governo italiano con la più forte componente femminile (in percentuale e per rilevanza dei dicasteri occupati) registrata sinora, ma Monti parla sempre «del ministro Fornero» (o Severino, o Cancellieri), come se la lingua italiana non avesse la parola «ministra». Del resto, la poetessa Giulia Niccolai, intervenendo a un convegno su Gertrude Stein, si è scusata perché avrebbe detto «la Stein», non riuscendo a correggere un’abitudine magari sbagliata ma molto radicata. E suonano molto strani quegli inviti in cui le desinenze maschiliste sono sostituite da asterischi «Gentili signor*, siete tutt* invitat*…» (un’amica aveva notato che le vocali che discriminano fra maschile e femminile sono quattro su cinque: voleva proporre la U come desinenza neutra: «siete tuttu invitatu…»). 
Anche se tutti i (e, certo, le) parlanti fossero d’accordo su queste discriminazioni operate dall’italiano, come rimediare? A differenza di quanto si pensi normalmente, la grammatica viene dopo la lingua: non prima. Chiama regole le regolarità , e agli usi censurabili (per storia, per convenzione, per etica o politica) deve limitare a darsi titolo di errore, ma non può certo imporre alcunché. E poi, se è vero che la lingua è in relazione con un modo di vedere il mondo, è altrettanto vero che si può cambiare la visione del mondo agendo sulla lingua? Pensare di procedere per decreti, e solo così, sostituisce una mentalità  autoritaria (ma soprattutto velleitaria) a quella dinamica di riflessione, casualità , tensione, intenzione, inconsapevolezza collettiva, che è poi l’unico modo in cui cambiano davvero le lingue e le culture.


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