«Unità -unità » in un paese diviso
«Questa è una grande festa per noi. Sono orgoglioso di essere egiziano», Mustafa Rahman, un 52enne impiegato del ministero della Sanità sventola energicamente la bandiera con l’aquila di Saladino. Con l’altra mano tiene in equilibrio la nipotina Sarah che porta sulle spalle, e si diverte a scompigliarli il cappellino giallo con il simbolo di «Libertà e Giustizia», il partito dei Fratelli musulmani. Non vuole sentire parlare di giunta militare o degli altri problemi che si stagliano sull’orizzonte di un Egitto ancora nel mezzo della transizione verso la democrazia. «Oggi abbiamo bisogno di unità . Dei problemi si occuperà il nuovo parlamento».
Unità è la parola d’ordine amplificata dai megafoni del grande palco del partito dei Fratelli Musulmani. Unità come quella chiesta da Ahmed al Tayyeb, imam dell’università Al-Azhar – il Vaticano del mondo sunnita – che in un comunicato ha invitato i manifestanti a evitare scontri perchè tutte «le nazioni arabe e islamiche, il mondo intero, tutti vi stanno guardando». O come quella caldeggiata da Mohammed Hussein Tantawi, il capo della giunta militare, riciclatosi da ministro della difesa di Mubarak in improbabile «difensore della rivoluzione del 25 gennaio».
Nel primo anniversario della rivoluzione che pose fine a 30 anni di dittatura di Hosni Mubarak, la piazza Tahrir è un mare umano in cui i richiami all’unità non riescono a sovrastare le urla «iasqot, iasqot el hokum el askar» (abbasso, abbasso la giunta militare). La partecipazione si rivela ben al di sopra delle aspettative. Oltre un milione di persone riempono il centro del Cairo per tutta la giornata.
Il programma era ripetere nei dettagli quanto avvenuto un anno fa, quando otto marce partirono verso mezzogiorno da diversi quartieri per poi dirigersi verso la «piazza liberazione», così chiamata per ricordare la rivoluzione contro il colonialismo inglese. Ma verso le 11 di mattina la piazza era già stracolma di manifestanti, in maggioranza aderenti del partito Hurreya wa Adala, braccio politico dei Fratelli musulmani, che ha recentemente conquistato il 47% dei seggi nel primo parlamento post-Mubarak. I cortei in arrivo da Giza, da Shubra, da Imbaba, da Dokki, da Mohandessin, da Nasr City, hanno dovuto aspettare fino a metà pomeriggio prima di riuscire afarsi strada in una piazza che non si era vista così piena dall’11 febbraio: il giorno delle dimissioni di Mubarak.
Sulla spianata, divenuta il simbolo mediatico e il terreno di battaglia della rivoluzione del 2011 (per distinguerla da quella del 1919 contro gli inglesi, e da quella del 1952 capeggiata da Nasser), il clima è un misto di festa nazionale e fiera di paese. Una bandiera egiziana lunga trenta metri viene trasportata da un centinaio di persone che la fanno sventolare agitando le braccia. Mercanti ambulanti vendono pate dolci arrostite, semenze, succhi di frutta e sigarette. In mezzo alla rotonda della piazza un gruppo di artisti installa una stele con i nomi dei mille martiri della rivoluzione, che ricorda nella forma la torre dell’orologio di piazza Habib Bourghiba a Tunisi, rinominata «piazza 14 gennaio» dopo l’insurrezione vittoriosa contro Ben Ali.
Festa meritata e commemorazione doverosa. Ma a molti è chiaro che non bisogna dimenticarsi che rimane ancora molto da fare per completare gli obiettivi della rivoluzione. «Il popolo vuole giustizia» urla un corteo di manifestanti che porta cartelli con i volti dei «martiri». Un enorme striscione nero appeso ad uno dei lampioni indica i colpevoli che non hanno ancora pagato: Mubarak, El-Adly (l’ex ministro dell’interno) e Tantawi, l’attuale presidente di fatto dell’Egitto. Tutti e tre con un cappio al collo.
Mentre in serata il grosso dei manifestanti ha lasciato la piazza, i giovani rivoluzionari hanno deciso di dare vita ad un sit-in per chiedere la fine del governo militare. In migliaia si sono diretti alla vicina Maspero, la sede della tv di stato che i manifestanti considerano una macchina di propaganda dei militari contro i rivoluzionari. A ottobre in occasione di una protesta organizzata dai copti nello stesso luogo, l’esercito intervenne brutalemente uccidendo 27 manifestanti.
Mentre calava la notte sul Cairo, centinaia di agenti erano asserragliati dietro di barriere di cemento e filo spinato attorno al ministero dell’interno e alla tv di stato. Basterà una piccola provocazione perché l’anniversario della rivoluzione inconclusa si trasformi in battaglia.
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Dato il clima vacanziero, è facile scambiare per la descrizione di un’ambita meta turistica quello che è invece un buon riconoscimento dato a un Paese straniero, specie se presentato con un profilo di questo tipo: “un simbolo di aria pulita, di bellezza, di pace e di eguaglianza di genere”.