«Noi imprenditori ci sentiamo traditi dalle banche e dallo Stato»
«Non resisto più». Si firma Matteo ed è un piccolo imprenditore.Spiega come si senta assalito da tutto e da tutti: «Non so ancora quante umiliazioni dovrò subire. Quante telefonate, raccomandate, ufficiali giudiziari, responsabili vendite degli istituti giudiziari, notai, tutto per levare il protesto». Matteo si sente abbandonato a se stesso e racconta la storia amara «di quel direttore di banca che ogni anno mi faceva gli auguri dal compleanno a Natale». Ceste di regali, vino, agende, calendari, «mi chiedeva se volevo soldi per ampliare, per costruire un nuovo capannone». Oggi quando Matteo chiama in banca risponde la segretaria, «mi dice che il dottore è impegnato o malato e mi ricorda subito dello sconfino e del mutuo non ancora pagato, mi rammenta che è partita la raccomandata per il rientro immediato del castelletto, del fido, delle carte di credito. Lei sì che ha memoria».
Testimonianze
Matteo è solo uno dell’incredibile numero di imprenditori e artigiani che hanno scritto al forum aperto daCorriere.it sulla crisi delle piccole aziende. Uomini e donne che si sentono dimenticati, lasciati soli con i loro debiti e le loro angosce, con i dipendenti da licenziare e le speranze tradite. «Tutti ti girano le spalle — scrive Alberto 46 — io e il mio socio avevamo un’azienda nel meccano-tessile, dinamica, innovativa, esportatrice». In 5 anni sono passati da 300 mila a 5 milioni di fatturato, da 5 a 35 dipendenti poi «il tessile è stato il primo ad essere travolto, i pagamenti internazionali sono sempre più difficili, le banche aspettano solo i rientri». Provano a resistere, convocano i sindacati, i dipendenti, cercano nuovi azionisti, presentano un concordato. «Io e il mio socio abbiamo perso tutto anche le nostre abitazioni che avevamo messo in garanzia. E ci domandiamo perché all’imprenditore che fallisce onestamente non viene riconosciuta la stessa dignità e lo stesso rispetto del lavoratore che perde il lavoro?». Dimenticato si sente anche Miccad che aveva creato 7 posti di lavoro e a causa dei mancati pagamenti delle aziende municipalizzate si è vista la casa pignorata, la macchina venduta e il telefono staccato. «È vero che ho 50 anni però conosco bene due lingue e appena finisco di pagare faccio i bagagli e vado all’estero. Vi vedrò dal satellite». La tentazione di trasferirsi è contagiosa e anche un altro imprenditore che si firma provocatoriamente «Il fesso» scrive: «Mi trasferirò in Svizzera a fare le cose altamente tecnologiche, qui nessuna banca ti dà retta e ti apre un conto».
Scelte difficili
Uomini e donne che non trovano più la solidarietà delle comunità e si trovano a dover fare scelte difficili. Manuela racconta: «Insieme al mio compagno ho una piccola attività in Sardegna ma il lavoro è praticamente fermo. Non riusciamo più nemmeno a pagare il telefono e lui ha deciso di lasciare qui me e i figli per cercare lavoro a Milano. Ma almeno una volta al mese dovrà tornare a vedere i ragazzi? Ma sommando costo della vita e trasporti ce la farà ?». Alzi la mano chi non ha mai sognato di aprire un agriturismo, business e benessere in un colpo solo. Luka lo ha fatto nel 2003, ha comprato un podere in Toscana e l’ha ristrutturato. La banca prima lo ha incoraggiato ad aprire, a comprare nuovi terreni e poi, con la crisi, lo ha lasciato in braghe di tela. Commenta Graziano: «La verità oggi è che l’andamento delle nostra attività non dipende più dal nostro entusiasmo, dalle idee originali, dal nostro carattere o dalla capacità di affrontare i problemi. Lo Stato impone e pretende, le banche ostacolano il credito. Mi sono reso conto di tutto ciò e ho chiuso l’azienda». Prima di mollare la presa un artigiano che ama il suo mestiere fa di tutto per evitare il peggio come un lettore che si firma «Un fu imprenditore»: «Ho ridotto i costi all’osso tagliando ovunque, ora non so più dove tagliare e dovrò iniziare a non pagare i fornitori, come già hanno cominciato a fare alcuni miei clienti. Dopo le utenze toccherà ai dipendenti. La chiamano discesa controllata».
Concorrenza sleale
Nel settore calzaturiero i Piccoli si sentono martellati dalla concorrenza sleale dell’estero e da chi produce fuori e poi scrivere sulle scarpe made in Italy. Come Rudizzo «dopo 40 anni che la nostra azienda è sul mercato non ce la facciamo più, in più i signori delle banche ci stanno scavando la fossa e siamo costretti a chiedere aiuto ai fornitori». La globalizzazione «è stata una mazzata sui piedi» aggiunge Lettore 333. «L’Unione europea si deve dare una regolata e mettere paletti alla delocalizzazione e ai rapporti con la Cina. E meno male che i cinesi cominciano giustamente a chiedere salari più alti!». Qualcuno pur in questa condizioni di mercato sfavorevole ce la fa e se capita è grazie alla capacità di esportare. Come Ilaria Mugnaini che ha una piccola azienda di abbigliamento per bambini: «Ho diversificato il mio prodotto cercando di posizionarmi nella fascia alta e ritagliandomi una nicchia. La differenza l’ha fatta l’estero che assorbe il 70% del mio fatturato, il restante 30% di fatturato Italia è un disastro in quanto produci, fatturi ma non sai mai quando riscuoterai e questo non è giusto. Non possiamo noi imprenditori fare da banca per gli altri». Sono un figlio di imprenditore scrive il giovane Amartya che si dice fortunato perché è stato mandato a studiare fuori. «La società di mio padre da 10 anni paga solo tasse senza vedere utili e come sia possibile ciò rimane un mistero italiano».
Il rapporto con lo Stato
La parola Stato molti piccoli imprenditori la scrivono tutta in maiuscolo. Uno psicologo potrebbe spiegarci che è una forma di soggezione, di paura. Lo chiamano «muro insuperabile», lo accusano di trattarli «da nemici», di tenere in piedi l’anacronistico articolo 18 ma soprattutto si lamentano perché non paga. Un imprenditore napoletano che si firma «Avvilito» sostiene che lo Stato è il suo debitore primario, rimborsa con 24 mesi di ritardo e non garantisce nemmeno i pagamenti tra privati. «È l’unico Stato europeo con una polizia fiscale — rincara R.S. — ma abbiamo uno dei tassi di evasione fiscale più alti e quindi la Guardi di Finanza serve a poco». Nella 1968 se la prende anche lei con uno Stato che «ci chiede di pagare le tasse su cifre mai incassate». Ed è quasi un coro. «Ci sono alcuni mesi come maggio, agosto e novembre che il 16 del mese si spendono cifre mostruose tra tasse e Iva, quasi la metà dell’utile di un anno, uno sproposito» denuncia Marco. È assurdo anche il sistema che «ti fa pagare le tasse sulle rimanenze di magazzino perché ci si paga pure l’Inps, pago l’Inps su del materiale che non ho venduto. E poi quando non si riesce a pagar tutto arriva Equitalia che nel pieno rispetto della legalità si prende tutto quello che trova».
Il nome di Equitalia, l’agenzia pubblica di riscossione oggetto in queste settimane di attacchi dinamitardi, ricorre tante volte nei messaggi degli «imprenditori dimenticati» di Corriere.it. I giudizi sono forti e gli epiteti ancora peggio. L’accusa è di non comprendere le dinamiche della crisi e di essere la spada di Damocle che si abbatte impietosa su chi è stato ridotto al lastrico dai mancati pagamenti della pubblica amministrazione. Uno Stato che non dà ma mena. «Sono un 35enne di Milano – scrive Fax76 – sono un lavoratore autonomo da sempre, mai fatto il dipendente, ho debiti per 350 mila euro dovuti a incassi non pervenuti e lo Stato non ti aiuta a riprenderli. Così sono entrato mio malgrado nel mondo dei decreti ingiuntivi». Persino quando finanzia le imprese per la ricerca e l’innovazione lo Stato si mostra patrigno e profondamente ingiusto. Spiega Paolo Sensini: «Chi prende i finanziamenti? Guardate i titoli delle ricerche proposte, dei progetti. È fuffa, fuffa allo stato puro nell’80% dei casi. E sono sempre i grandi a trarne beneficio. Quei grandi che scrivono bilanci di 200 pagine in cui tutto è possibile. Prendono i soldi, ci fanno cassa e nessuna ricerca».
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