L’illusionista del libero mercato

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Avete preso freddo, vi viene la febbre e chiamate il vostro medico, che vi visita e, con vostro grande stupore, vi raccomanda di continuare a vestirvi leggeri, di non coprirvi, perché è l’eccessivo calore che provoca in realtà  la febbre. Avete fiducia nel vostro medico, è conosciuto e stimato in tutta la città . Decidete quindi, nonostante le perplessità , di dargli retta: in fondo l’esperto è lui. Dopo quindici giorni finite però in ospedale con una brutta polmonite. Se questa vi sembra una storia assurda, sappiate che è esattamente quello che sta capitando in Europa e in Italia. La finanziarizzazione senza controllo dell’economia e le politiche neoliberiste sono uno dei fattori alla base dell’attuale crisi economica mondiale, la peggiore dal 1929.
Il discorso politico dominante, in un’Europa governata dalle destre, è però quello di innestare ulteriori fattori di liberismo nei sistemi economici, secondo una logica scientista che presenta politiche frutto delle decisioni umane come fossero leggi della fisica: con la gravità  bisogna comunque fare i conti e non si può pensarla in modo diverso. L’ultimo libro di Michele Salvati Tre pezzi facili sull’Italia (Il Mulino, euro 14) permette di riflettere esattamente sui fondamenti di questo paradosso.
Il libro si articola in tre saggi scritti in momenti e con finalità  diverse. Proverò a riassumere il filo rosso del ragionamento che li tiene insieme. Secondo un approccio metodologico condivisibile, Salvati lega strettamente le dinamiche di sviluppo economico con le performance del sistema politico-istituzionale, partendo dalla riproposizione implicita di una delle più classiche tesi su cui, addirittura, si era mossa l’azione del Pci negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento: il capitalismo italiano è profondamente arretrato e le forze al governo, le loro culture politiche e ideologiche, gli interessi di cui sono portatrici, non consentono un’adeguata modernizzazione del sistema. Al contrario, accentuano gli antichi mali italiani, aggravando gli effetti dirompenti della crisi mondiale. Il soggetto in grado di operare la trasformazione non è più, sostiene l’autore, la classe operaia alleata con le punte più avanzate della borghesia, ma un gruppo ristretto di liberali che, in vari modi, hanno il dovere di diffondere la propria visione nella società , mettendosi alla testa di un moto di rinnovamento profondo della politica e dell’economia che, inevitabilmente, dovrà  avere il segno del liberismo. Come esposto nel secondo capitolo, il più denso e importante dell’intero volume, la modernizzazione auspicata da Salvati comporta essenzialmente politiche economiche, agganciate alla sempiterna «legge di Say», volte alla liberazione e liberalizzazione dei fattori di offerta complessivamente intesi: lavoro, servizi pubblici e così via. Se questa salvifica rivoluzione liberale sinora non si è prodotta, due sono essenzialmente le cause: un deficit storico di cultura liberale tanto nelle vecchie quanto nelle nuove classi dirigenti. La pesante eredità  neo-corporativista lasciata dal lungo centro-sinistra della Prima repubblica (1964-1993) ai governi della Seconda. Non in grado di proseguire la strada intrapresa dagli Amato, dai Dini e dai Ciampi, per il malfunzionamento del sistema politico-istituzionale.
La seconda Repubblica ha così prodotto solo ulteriore stagnazione e il tentativo di ricomposizione neo-populista degli equilibri politici italiani, messa in campo da Berlusconi. Ora, chi scrive è fermamente convinto che la liberalizzazione dei settori assicurativi, bancari e di alcune professioni sia non solo una misura di stimolo dell’economia ma anche una questione di giustizia sociale. Il punto è che il ragionamento di Salvati arriva fuori tempo massimo ed è impregnato di assunti ideologici. 
Oggi, le grandi questioni che l’Europa deve porsi sono quelle dell’equità , della distribuzione del reddito e dei limiti della crescita puramente quantitativa. Problemi che richiedono la costruzione di un governo politico dell’Unione. Il feticismo del mercato aggrava ciascuno di questi problemi e rende difficile la realizzazione dell’ormai necessario federalismo europeo. In più, la visione di Salvati finisce per essere ideologica perché nasconde la dinamica dei rapporti di forza politici e sociali inevitabilmente sottesi ad ogni scelta politica: l’economia non è neutrale e le ricette proposte dall’autore, come ogni scelta, finiscono per premiare quegli stessi soggetti e poteri che hanno causato la crisi e continuano ad alimentarla con scelte miopi. Non è nella Destra storica né nei governi centristi degli anni ’40 e ’50 che possiamo e dobbiamo guardare per affrontare alla radice i problemi dell’Italia e dell’Europa. Dobbiamo al contrario impegnarci nella possibile ricostruzione di un nuovo senso della democrazia e dello sviluppo. È stato già  perso molto terreno: è dunque meglio evitare lo stesso errrore. Se il governo Monti può essere, per alcuni versi, giudicato una necessità  di fronte all’impotenza e all’incapacità  della politica, è innegabile che le vie del liberismo sottese al ragionamento di Salvati, sembrano aver imboccato con il governo del Professore, le strade pericolose della gramsciana rivoluzione passiva. 
Ma tutto questo Salvati non sembra averlo preso in considerazione né previsto dato che scrive : «non pochi politici e commentatori hanno avanzato la proposta di un governo di emergenza e unità  nazionale esiste qualche possibilità  che possa essere attuato? Molte poche». Ma si sa le previsioni sono fatte per essere smentite, specie quelle che vengono dagli economisti.


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