«E sempre più l’economia genera mostri»
Perché la cattiveria può restare una dimensione individuale, anche innocua. Al limite peggiora i tuoi rapporti, rende fosco lo sguardo sulle cose. La disonestà implica invece sempre una forma di distruzione, dell’altro. Art Spiegelman, in Maus, ha reso magnificamente concreta questa annosa e orribile faccenda. I suoi topi erano gli ebrei rinchiusi nel campo di concentramento, i gatti, ovviamente, i nazisti. Ma l’Olocausto scorre nelle viscere dell’uomo come un veleno tremebondo di cui sembra impossibile liberarsi. La storia non basta. «L’antisemitismo è un fenomeno crescente da 2000 anni e continua a svilupparsi», racconta Spiegelman al Circolo dei Lettori di Torino per la sua unica data italiana, tappa utile a una lezione dal titolo «What the %@&*! Happened to Comics?». La sua presenza precede l’uscita dell’ultimo lavoro Meta Maus, una sorta di biografia motivazionale a Maus, la cui edizione italiana uscirà per Einaudi. Classe 1948, Spiegelman ha lo stile del classico ebreo newyorkese, giacca grigia con pullover blu sbiadito, mocassino liso, occhialetto e conversazione fluida e generosa. Il cranio immenso spunta delicatamente fuori dalle parole gentili e dal sorriso naturale. Esattamente come successe in Germania dopo Weimar, nei periodi di grande crisi economica il razzismo in generale, l’antisemitismo nello specifico, aumenta esponenzialmente. «Piove sempre sul bagnato. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si è detto, scritto, ripetuto: Mai più! Invece è capitato di continuo, in Africa, in Bosnia, ovunque. Oggi è sempre più l’economia a creare mostri. Il 99% della popolazione è composta da topi. L’1% sono i gatti». L’invalidità visiva- ha un solo occhio funzionante- non ha impedito al Premio Pulitzer di interpretare la società attraverso i suoi disegni. Un percorso molto vicino all’analitico, una sorta di fuga salvifica dalla realtà , sia da autore che da fruitore. «Ero figlio di due immigrati traumatizzati – Maus infatti ripercorre la storia del padre, ebreo polacco sopravvissuto ad Auschwitz ed emigrato negli Usa- che non riuscivano a riconoscersi un questa nuova terra in cui erano scappati. Io, quindi, sentivo di essere l’unico della mia famiglia ad appartenere all’America e per me i comics erano un rifugio, il filtro attraverso il quale mi relazionavo con il mondo. Anche perché, a baseball, non potevo giocare! Appena potevo me la svignavo in biblioteca!».
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