Le regole premino l’economia reale
Per trovare il bandolo di una matassa così complicata, non si può fare a meno di partire da una nuova analisi del rapporto fra le regole e il mercato, proprio perché la situazione attuale, certo non priva di problemi, ci spinge a valutazioni di carattere sistemico. Guardiamo ai fatti. Se ci dovessimo esprimere, oggi, non potremmo che affermare che ha vinto il mercato. Le regole, e con esse la politica, si sono dimostrate lente e inadeguate e non hanno fatto altro che cercare di inseguire, senza riuscirvi, le novità che il mercato ha portato nella vita di ciascuno di noi. L’asimmetria tra ordinamenti pubblici e mercato ha fatto sì che i primi siano andati al traino del secondo, il più delle volte senza opporre resistenza e in molti altri casi cercando goffamente di costruire argini destinati a essere travolti dal fiume in piena.
Occorre però domandarsi se un simile approccio abbia fatto il bene di cittadini, risparmiatori e contribuenti e, in definitiva, se abbia fatto il bene del mercato stesso, inteso quale luogo dove si forma la libera volontà di venditori e compratori su un prezzo trasparente di beni chiaramente individuabili.
Per constatare quanto la realtà sia lontana dai desideri, basti considerare due fenomeni: quello della cattura del regolatore e quello della concorrenza fra sistemi giuridici. Quanto al primo, abbiamo assistito, soprattutto negli ultimi trent’anni, alla progressiva finanziarizzazione dell’economia, che è avvenuta sostituendo le transazioni relative a beni reali con la commercializzazione di strumenti finanziari, molto spesso scollegati da qualunque effettivo riferimento all’economia reale e ai suoi fondamentali. È qui che si è verificato il primo colossale errore di prospettiva delle autorità pubbliche e dei regolatori. Essi, per non essere tacciati di antimercatismo o di statalismo, non hanno fatto altro che inseguire i nuovi prodotti offerti sul mercato — dai derivati agli Etf (exchange traded fund), ad esempio — cercando di regolamentarne qualche inutile particolare. In sostanza si sono comportati come un ministro della Sanità che, anziché vietare l’uso indiscriminato della stricnina, invitasse i produttori a migliorarne la formula e a modificare la quantità degli eccipienti. In realtà , ciò che hanno mancato di fare i regolatori è stato di valutare se i prodotti in questione fossero più o meno nocivi al mercato e ai risparmiatori e, di conseguenza, semplicemente bandirli. La crisi del 2007-2008 e quella attuale sono figlie di questo approccio passivo.
La globalizzazione, poi, ha portato con sé non solo l’apertura dei traffici mondiali, ma anche la possibilità di adottare, per le transazioni finanziarie — visto che il denaro si può spostare con maggiore facilità rispetto a un cargo — la normativa giuridica più conveniente. Si tratta del cosiddetto fenomeno della scelta del diritto à la carte, meccanismo che permette di optare per la regola più vantaggiosa, non diversamente da quanto accade quando si sceglie un pasto al ristorante. In teoria, questo sistema avrebbe dovuto portare al graduale livellamento verso il basso di tutti i sistemi giuridici mondiali, e quindi a un mondo più orientato in senso amichevole nei confronti del mercato. Invece, le asimmetrie, le tradizioni giuridiche e quelle sociali presenti nei diversi Paesi hanno consentito la sopravvivenza di sistemi giuridici molto diversificati. In questo modo sono sopravvissuti sistemi obsoleti e non competitivi, buona parte dei quali sono collocati nel mondo occidentale che soffre di una storica complessità giuridica e sociale.
L’inarrestabile fuga verso sistemi giuridici più convenienti ha portato allo spostamento a favore dei Paesi dove quei sistemi erano applicati, anche dei connessi interessi economici. Con un inconveniente non trascurabile. Aldumping giuridico si è aggiunto il dumping sociale. Infatti, i sistemi giuridicamente meno attrattivi, per non perdere completamente la loro ricchezza e le loro produzioni, hanno dovuto adeguare il proprio sistema di valori a quello esistente nei Paesi più competitivi. Ne è derivato, ad esempio, che il reddito dei lavoratori non dipende più tanto dal costo della vita nei singoli Paesi, quanto dalla valutazione comparata del costo del lavoro rispetto a quello dei sistemi più efficienti. Quello del costo del lavoro è solo uno degli esempi, ma è il più significativo, perché ha comportato di fatto il livellamento dei redditi e quindi, nella sostanza, la progressiva cancellazione della classe media.
Ma se la classe media scompare, scompare anche il risparmio che questa ha tradizionalmente generato. E la scomparsa del risparmio comporta due pericolose conseguenze: la prima è che diminuiscono gli investimenti e quindi che si va verso un progressivo impoverimento di quella realtà territoriale. La seconda è che non serve più un mercato trasparente, perché sia quei pochi soggetti che dispongono di denaro sia gli investitori istituzionali possono tranquillamente contrattare tra di loro senza rendere visibili i prezzi. Magari approfittando dei mercati paralleli (e non solo dello shadow banking system) che la regolamentazione dei mercati (Mifid) — ora, per fortuna, in fase di modifica — ha consentito crescessero a danno dei mercati ufficiali: da qui l’esplosione delle cosiddette dark pools e dei prodotti tossici.
Se dunque non vogliamo inseguire crisi che si ripresentano in tempi sempre più ravvicinati, è giunto il momento di «tornare allo Statuto» e imporre per i mercati regole poche e chiare (l’americano Dodd-Frank Act del 2010 è un tomo di duemila pagine che, volendo occuparsi di ogni più minuto fenomeno, ha lasciato tutto come prima) e soprattutto che servano a riportare il risparmio dei cittadini verso l’economia reale.
*Presidente della Consob
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