le Malattie del Capitalismo tra Eccessi e Disillusioni

by Editore | 10 Gennaio 2012 8:50

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C’era una volta la contrapposizione tra capitalismo anglosassone, basato sulla forza del mercato, poco generoso verso i perdenti ma anche capace di premiare i meritevoli e di produrre ricchezza, e il «modello renano» franco-tedesco: un capitalismo «corretto» da molte tutele sociali e dall’intervento pubblico in economia. Oggi, mentre l’Europa deve rivedere Welfare, ruolo e spesa dello Stato, anche il modello anglosassone, afflitto da pesanti squilibri, finisce nel mirino.Un dibattito sempre più intenso sul suo futuro si sviluppa — tanto in Gran Bretagna quanto negli Stati Uniti — tra leader delle forze produttive e della finanza, mondo politico, organismi sociali, accademici e analisti dei grandi media.
Il malessere nei confronti del capitalismo è ormai diffuso anche negli Usa: i sondaggi indicano che anche nel Paese storicamente più liberista, a fronte di un 50 per cento di cittadini a favore del mercato, c’è un 40 per cento di delusi (soprattutto giovani e minoranze etniche). Un clima che ha spinto anche grandi testate come il Financial Times, l‘Atlantic, riviste politiche come Foreign AffairsForeign Policy a interrogarsi sul futuro del modello economico occidentale. Si passano al microscopio gli effetti di cambiamenti ormai consolidati come la globalizzazione e riforme fiscali che, soprattutto in America, hanno favorito una «polarizzazione» dei redditi e il progressivo impoverimento del ceto medio.
E si ragiona, come ha fatto ieri John Plender aprendo una grande inchiesta del quotidiano finanziario britannico, sugli eccessi del sistema finanziario che ha portato l’intero sistema creditizio sull’orlo del «meltdown» e ha innescato meccanismi spropositati di arricchimento e distorsioni del sistema retributivo che divengono sempre più inaccettabili man mano che le società  occidentali subiscono il morso del loro progressivo impoverimento.
Patologie cresciute all’ombra di un’interpretazione troppo radicale del liberismo e di una «deregulation» che ha azzerato anche i controlli necessari, oltre a quelli puramente burocratici. Queste riflessioni trovano in Inghilterra molte voci favorevoli a una «rifondazione» del capitalismo, mentre negli Stati Uniti, con accenti diversi tra progressisti e conservatori, la tendenza è a proporre correttivi che non mettano, comunque, in discussione l’impianto generale.
Sempre sul Financial Times Larry Summers, docente di Harvard ex ministro del Tesoro di Bill Clinton e consigliere economico di Obama parla di un sistema da riformare ma senza rimetterne in discussione i cardini. Mentre i liberali britannici dell’Economist usano addirittura il termine «fatwa» per descrivere l’intransigenza degli slogan coi quali i candidati repubblicani alla Casa Bianca ripropongono un modello economico ultraliberista, basato sulla «deregulation» reaganiana. 
Problemi del capitalismo e dell’impatto politico del cambiamento della distribuzione della ricchezza non certo nuovi (l’autore di questo articolo scrive da almeno sei anni di fine del ceto medio come conseguenza anche della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica) ma che sono diventati oggetto di discussioni «incendiarie» all’indomani del crollo della Lehman Brothers, nell’autunno del 2008. E che, dopo una pausa, sono riemerse nelle ultime settimane quando la tempesta ha travolto i Paesi dell’euro. Una vera crisi di sistema, se non proprio una crisi terminale, che ha portato molti a sottolineare i rischi per tutti i Paesi dell’Occidente di un drammatico divorzio tra capitalismo e democrazia, se non si riformano i meccanismi del mercato dando luogo a una sorta di «nuovo inizio» con meno eccessi della finanza, meno avidità  e una distribuzione meno squilibrata dei redditi.
Sono discussioni difficili da sviluppare, negli Usa, in un periodo di confronto elettorale esasperato, in cui ognuno si trincera dietro le sue bandiere, con le accuse di usare un linguaggio classista venato di marxismo che non vengono rivolte solo dai repubblicani ad Obama, ma che rimbalzano anche all’interno del mondo politico conservatore: alla vigilia del voto in New Hampshire, ad esempio, per cercare di arrestare la corsa di Mitt Romney, Rick Santorum non ha trovato di meglio che accusare l’ex governatore del Massachusetts di criptosocialismo per aver usato l’espressione «classe media», a suo avviso imbevuta di cultura marxista.
Ma dopo le elezioni verrà  il momento di riflettere seriamente sulla sostenibilità  di molti meccanismi e il loro adeguamento a una realtà  che è cambiata. Intanto nei «think tank» l’elaborazione è già  iniziata, alimentata anche da analisi molto approfondite come l’indagine sulle radici ideologiche del sistema economico-sociale nel quale viviamo condotta dalla rivista americana Foreign Affairs.
Niente di nuovo, sostiene il Financial Times, ricordando come anche nell’Ottocento, dopo gli sconvolgimenti della rivoluzione industriale, vennero le denunce degli squilibri e delle sofferenze sociali di scrittori come Charles Dickens, il marxismo e le riforme che corressero le durezze del capitalismo selvaggio. Oggi, forse, è tutto più complesso perché alle distorsioni del sistema economico si aggiungono due fenomeni nuovi e inediti come la globalizzazione e la diffusione delle tecnologie digitali che — a differenza di quelle meccaniche ed elettriche dei secoli scorsi — anziché produrre più posti di lavoro, favoriscono un calo degli occupati.
Massimo Gaggi

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