Le grandi manovre dei privatizzatori

by Editore | 13 Gennaio 2012 8:53

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Sette mesi è durata la manovra che metterà  la mani nella vita quotidiana degli italiani. Un tempo in definitiva breve per cambiare nel profondo il paese, con la più grande privatizzazione mai concepita in Europa dopo l’era Thatcher. Sette mesi, due governi, tre provvedimenti ed un certosino lavoro della più potente lobby economica, quella espressa dai giganti dei servizi pubblici. Sono loro, alla fine, i principali beneficiari del corposo decreto che il governo di Mario Monti sta preparando. 
Speravano nel silenzio, cercavano di bloccare le prime indiscrezioni, inviando giovedì sera alle agenzie uno stringato comunicato che cercava di smentire quel testo arrivato nelle redazioni. Un tentativo goffo, che ieri non ha avuto replica, dopo la pubblicazione di ampi stralci del provvedimento..
Le grandi manovre dei privatizzatori hanno una data d’inizio chiara, il 14 giugno scorso. Ovvero il giorno del conteggio dei 27.637.943 voti espressi dagli italiani per abrogare due norme centrali sull’acqua e sulla gestione dei servizi pubblici locali. Un evento storico, ma in fondo facilmente spiegabile: in ballo c’era quello che le multinazionali chiamano «l’essenziale per la vita». Oltre ai servizi idrici quelle norme abrogate riguardavano la gestione dei rifiuti, il trasporto pubblico, gli asili nido, le farmacie comunali. Per questo il successo dei referendum è stato travolgente. Quasi ventotto milioni di persone hanno capito che in ballo c’era molto di più di un acquedotto o di una fontanella pubblica, si trattava in fondo della qualità  della vita.
La prima mossa la compie il parlamento, approvando il 21 giugno l’istituzione dell’Agenzia regolatrice dei servizi idrici. Un’autority, ovvero lo strumento principe dei mercati liberalizzati. Già  allora spunta la parola chiave, liberalizzazione: «Potete scegliere il servizio migliore», si poteva leggere tra le righe dei commenti usciti dalle bocche e dalle penne dei pasdaran della privatizzazione. «Diminuiranno i prezzi», «Eliminiamo la gestione politica e le poltrone nei Cda» e, immancabile, «Il mercato è in grado di regolare i servizi essenziali».
Dopo il primo passo del parlamento si è aperto un fronte ampio quanto silenzioso, con l’obiettivo dichiarato di svuotare i referendum. Il primo luglio è intervenuta la lobby dei gestori dell’acqua, l’Ania (Associazione nazionale autorità  e enti di ambito territoriale). Durante l’assemblea annuale si discute degli «effetti dei referendum». E spiegano: c’è «incertezza sulla normativa applicabile agli affidamenti dei servizi pubblici locali»; e ancora: «ridotta finanziabilità  degli investimenti». Una richiesta chiara di interventi per bloccare il cambiamento voluto dagli elettori.
Pochi giorni prima, il 24 giugno, era intervenuto il docente di diritto pubblico Giulio Napolitano – figlio del presidente della Repubblica – che in un documento richiesto dalla romana Acea spiegava come difendere lo status quo: «Il referendum non ha nessun effetto sui rapporti in corso». Acea poteva stare tranquilla, quel voto non avrebbe messo in discussione la grande privatizzazione alla romana, avviata nel 1998 da Francesco Rutelli. E il futuro? Qui entra un punto chiave, che verrà  ripreso dall’intervento del governo Monti. Scrive Giulio Napolitano: «L’intera materia dei servizi pubblici (…) rimane disciplinata dal testo unico sugli enti locali». Segnamoci questo passaggio.
Il 3 luglio inizia il ballo dello spread. Sono i conti pubblici il tema quotidiano dei giornali e, rapidamente, il referendum viene archiviato. In un mese e mezzo il governo Berlusconi-Tremonti prepara l’intervento della vigilia di ferragosto, dove appare, all’articolo quattro, la norma Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’unione europea. In sostanza il ministero dell’Economia riprende l’abrogato 23 bis della legge Ronchi e lo riporta – con un vero copia e incolla – nel pacchetto, escludendo il solo servizio idrico. È un imbroglio, in realtà , perché il primo quesito referendario riguardava tutti i servizi pubblici locali. Si avvia così la privatizzazione forzata dei rifiuti, del trasporto pubblico locale e di altri pezzi di vita quotidiana. Un pacchetto confermato – e rafforzato – dal decreto sviluppo, ultimo atto del governo di Silvio Berlusconi. I professori stavano già  scaldando i muscoli.
A fine novembre arriva Mario Monti, curriculum da economista ed esperto di quella parola che da mesi girava attorno ai referendum e ai servizi pubblici locali: la liberalizzazione. Il paese è ingessato, bloccato dalle corporazioni, serve aria nuova, è il leit-motiv che intasa le cronache politiche. Si prepara l’atto finale.
La bozza del decreto Monti uscita giovedì ha tre articoli micidiali sui servizi pubblici: il 18, il 19 e il 20. I primi due rafforzano – e nessuno ne sentiva il bisogno – il ripescaggio del 23 bis della legge Ronchi preparato dal governo Berlusconi. L’articolo 20 va più in profondità , riallacciandosi alla sottile analisi di Giulio Napolitano, che tanto aveva tranquillizzato Acea. Intacca un articolo cardine del testo unico degli enti locali, escludendo dalla gestione pubblica – ovvero dagli enti non economici, come le aziende speciali e i consorzi – i servizi locali, acqua inclusa. Tutte le gestioni, in questa maniera, dovranno essere affidate solo alle società  per azioni, possibilmente sorrette dal capitale privato. Non solo. I comuni in difficoltà  finanziaria dovranno cedere quote prima di bussar cassa allo stato centrale.
Il cerchio ora è dunque chiuso. Manca il passaggio finale, il voto in parlamento, dove essenziale sarà  il partito democratico. Gli ecodem spiegano che questo imbroglio loro non lo voteranno, e lo stesso Roberto Della Seta chiede aiuto anche ai movimenti: «Serve una grande mobilitazione dei comitati referendari», spiega al manifesto. 
Oggi il quadro è ormai chiaro. La lunga marcia in stile Thatcher sta per arrivare all’ultima tappa.

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