Laura Pariani, memorie di «strie» in Piemonte
Nel romanzo La valle delle donne lupo (Einaudi 2011, pp. 246, euro 19,50), Laura Pariani ricrea, con i mezzi della fiction, ma attingendo anche a vicende personali, quelle esperienze di ricerche etnografiche che soprattutto negli anni Settanta ma ancora negli Ottanta hanno fortunatamente sottratto all’oblio esperienze e vissuti di tradizione orale negli angoli più sperduti d’Italia, consegnati a una povertà secolare, che la modernità sopraggiunta rischiava, rapidamente, di spazzare via.
Pariani mette in scena una ricercatrice milanese di oggi, un’intervistatrice di buona volontà , che armata del tradizionale registratore, si avventura in una valle dell’alto Piemonte, nell’abbandonato Paese Piccolo, per raccogliere le memorie dell’ultima anziana abitante: la Fenàsia, che, figlia ed erede dei «sotterramorti» del Paese, abita alle soglie del cimitero di questo centro d’alta montagna ormai del tutto spopolato, senza temere la vicinanza con la morte che la lunga consuetudine di generazioni le fa apparire, appunto, familiare.
Non solo di becchini, tuttavia, è erede la Fenisia, in lei si concentra la sapienza di generazioni di donne esperte dell’uso di rimedi del bosco, di ribelli, di outsider, di «balenghe» e di «strie», maestre di erboristeria quando non di altre e più inquietanti sapienze, che atterriscono nella sua giovinezza le comari del Paese: «Tra una corona e l’altra, sussurrano alla ghiotta che quella stràa della Malvina restò in vita a làbito sua… trattenne il respiro aspettando a morire finché non fosse tornata dal collegio la Fenàsia, regina angelorum ora pro nobis, per istruirla nel fare la fàsica e trasmetterle il comando, regina confessorum ora pro nobis. Su quest’ultimo punto del cosiddetto “comando” stanno a mantecarla alla grande: così infatti in valle si chiama la sapienza nella “fàsica”, ovverossàa l’arte di sanare o uccidere con le erbe».
Sono queste, Malvina, Fenàsia, le «donne lupo» che l’ortodossia cattolica e della comunità di paese ha da sempre emarginato e scacciato, quando non eliminato senza mezzi termini seppellendole in un prato nei pressi del villaggio, un cimitero sconsacrato e senza nomi che quasi diventa luogo di culto a rovescio: «Comunque mette uno sfriso di inquietudine traversare quel tratto di pendio, affrontare la fitta bruma che certe volte lo copre, sapendo che si tratta di un cimitero senza croci e senza nomi. La Fenàsia sente fremere dentro di sé qualcosa che le arriva da lontano attraverso il sangue: la lunga catena di Balenghe che sono vissute nella valle, passandosi una dolorosa e sotterranea eredità d’umori e d’ombra, da madre in figlia o da nonna a nipote. Quelle che non potranno difendersi. Quelle che nessuno piange. Quello che nessuno vuole ricordare. Quelle che non hanno nome».
Più di tutto, la tematica «lupesca» – che apparenta in qualche modo la «Valle» a un libro diversissimo come Nina dei lupi di Alessandro Bertante, uscito lo scorso febbraio per Marsilio – s’incarna nel personaggio della Grisa, l’amatissima, anche fisicamente, cugina di Fenisia, scappata di casa nel bosco a tre anni e lì sopravvissuta insieme a una cucciolata di lupi. Ribelle d’indole, finirà in manicomio, per poi uscirne solo ai tempi della legge Basaglia, e si dedicherà a costruire «macchine per fabbricare lupe», perché in fondo, scrive Pariani, «esistono solo due tipi di donne: quella che somiglia alla pecora smarrita nel fosso, folle di paura. O l’altra che è più vicina alla lupa» e che non teme di raccontare «la lupa verità ».
La lingua fa da soglia per chi voglia entrare nella lettura di questo libro, contaminata da espressioni e dialettalismi, come racconta l’autrice in nota, di uno strano idioma «che di piemontese non ha praticamente nulla», ma in compenso abbonda «di termini venuti dalla pianura lombarda o dalle valli d’oltralpe». È la lingua della Fenàsia, che domina i capitoli dispari del romanzo, dove si dice la sua storia, ma finisce per contaminare anche i capitoli pari, in cui l’intervistatrice dovrebbe tirare le somme della vicenda narrata. Non è però la prima persona a imporsi, ma la terza, perché la Fenàsia perde l’«io» in collegio, fino a rispondere al medico che la vede risvegliarsi da una forma di grave encefalite: «”Forse lei si chiama Fenisia”. Come se la parola io non le appartenesse più», e si fa, in questo modo, anche nella carne, canale di trasmissione di quel noi femminile collettivo e perduto, anonimo e dolente, che è il vero protagonista di questo romanzo.
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