L’oblio è un diritto?

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Dalla cancellazione alla imposizione. Ieri la damnatio memoriae, oggi l’obbligo del ricordo. Che cosa diviene la vita nel tempo in cui “Google ricorda sempre”? L’implacabile memoria collettiva di Internet, dove l’accumularsi d’ogni nostra traccia ci rende prigionieri d’un passato destinato a non passare mai, sfida la costruzione della personalità  libera dal peso d’ogni ricordo, impone un continuo scrutinio sociale da parte di una infinita schiera di persone che possono facilmente conoscere le informazioni sugli altri. Nasce da qui il bisogno di difese adeguate, che prende la forma della richiesta di diritti nuovi – il diritto all’oblio, il diritto di non sapere, di non essere “tracciato”, di “rendere silenzioso” il chip grazie al quale si raccolgono i dati personali.
La cancellazione della memoria, l’oblio forzato sono antiche tecniche sociali. A Roma, per i condannati per fatti gravissimi, v’era la damnatio memoriae, l’eliminazione d’ogni traccia che potesse mantenerne il ricordo: scomparso il nome dalle iscrizioni, distrutte le immagini e le statue. In Francia, nel 1598, dopo una stagione di guerre laceranti, l’Editto di Nantes stabilì “che la memoria di tutte le cose accadute da una parte e dall’altra, dall’inizio del mese di marzo 1585 fino al nostro avvento al trono, rimanga spenta e assopita come di cosa non avvenuta. Vietiamo a tutti i nostri sudditi, di qualunque ceto e qualità  siano, di rinnovarne la memoria”. Solo la liberazione dalle tossine del ricordo poteva consentire il ritorno alla normalità  sociale.
Un confronto con i nostri tempi mostra come queste impostazioni possano essere rovesciate. In paesi usciti da regimi dittatoriali, commissioni per la verità  e la riconciliazione, sul modello creato nel 1995 dal governo sudafricano, hanno messo in evidenza l’importanza di una luce piena sul passato per una riconciliazione fondata sulla costruzione di una memoria “condivisa”. Per quanto riguarda le persone, la vera damnatio è ormai rappresentata dalla conservazione, non dalla distruzione della memoria. Che cosa diventa la persona quando viene consegnata alle banche dati e alle loro interconnessioni, ai motori di ricerca che rendono immediato l’accesso a qualsiasi informazione, quando le viene negato il diritto di sottrarsi allo sguardo indesiderato, di ritirarsi in una zona d’ombra?
Questa domanda è occasionata da un cambiamento tecnologico, ma illustra un mutamento antropologico. Non a caso si parla di persona “digitale”, disincarnata, tutta risolta nelle informazioni che la riguardano, unica e “vera” proiezione nel mondo dell’essere di ciascuno. Non un “doppio” virtuale, dunque, che si affianca e accompagna la persona reale, ma la rappresentazione istantanea di un intero percorso di vita, un’espansione senza limiti della memoria sociale che condiziona la memoria individuale. Il mutamento di qualità  della memoria sociale nasce dapprima con la creazione di banche dati sempre più gigantesche, che rendono possibile la raccolta di tutte le informazioni disponibili, i loro collegamenti, la loro massiccia diffusione. Ma il vero cambiamento si ha quando Internet fa sì che quelle informazioni siano accessibili a tutti attraverso motori di ricerca che le “indicizzano”, le organizzano e le rendono suscettibili non solo di più diffusa conoscenza, ma di rielaborazioni continue.
Si crea così un contesto che neutralizza le modalità  che storicamente avevano consentito il sottrarsi ad una sorta di dittatura implacabile della memoria sociale. Limitate, fino a ieri, le possibilità  di raccolta delle informazioni; ardua o impossibile una loro conservazione totale; lontani o difficilmente accessibili gli archivi; ristrette le opportunità  di una diffusione su larga scala. In alcuni casi, come quello americano, vi era poi il contrappeso della “frontiera”, dimensione non soltanto fisica come ci ha ricordato Frederick Turner, ma luogo d’ogni opportunità  e di rinascita della persona libera dal passato. E poi la possibilità  di scomparire, cambiando nome, immergendosi nella “folla solitaria” delle metropoli.
Tutto questo è oggi cancellato dalla “tracciabilità ” consentita dalle raccolte di massa delle informazioni, dal fatto che la folla non è più solitaria, ma “nuda”, restituita ad una realtà  nella quale ogni individuo è scrutato, schedato, ricondotto ad una misura che lo rende riconoscibile e riconosciuto. Sembra scomparire l’antica alternativa intorno alla quale tanti si sono affaticati. La memoria come accumulo di esperienza e saggezza o peso insostenibile del quale liberarsi? L’oblio come condanna o come risorsa? Se pure vi fosse un fiume Lete dove abbeverarsi, per cancellare ogni ricordo, Internet rimarrebbe lì, implacabile, con la “sua” memoria che si imporrebbe alla nostra.
Qui è la ragione di una discussione sul “diritto all’oblio” che si diffonde in ogni luogo, tema divenuto cavallo di battaglia della commissaria europea Viviane Reding e che ha trovato riconoscimento nelle nuove norme europee sulla privacy. Liberarsi dall’oppressione dei ricordi, da un passato che continua ad ipotecare pesantemente il presente, diviene un traguardo di libertà . Il diritto all’oblio si presenta come diritto a governare la propria memoria, per restituire a ciascuno la possibilità  di reinventarsi, di costruire personalità  e identità  affrancandosi dalla tirannia di gabbie nelle quali una memoria onnipresente e totale vuole rinchiudere tutti. Il passato non può essere trasformato in una condanna che esclude ogni riscatto. Non a caso, già  prima della rivoluzione tecnologica, era prevista la scomparsa da archivi pubblici di determinate informazioni trascorso un certo numero di anni. La successiva “vita buona” era considerata ragione sufficiente per vietare la circolazione di informazioni relative a cattivi comportamenti del passato. Soprattutto negli Stati Uniti le leggi prevedevano minuziose casistiche riguardanti le attività  economiche, tanto che dopo quattordici anni non si poteva dare notizia neppure d’una bancarotta. Ombra protettrice di Max Weber, con l’etica protestante a dare una mano a chi, benedetto dal successivo successo negli affari, doveva considerarsi assolto da ogni precedente peccato?
Nelle regole di oggi, rinvenibili nei paesi più diversi, si va dal diritto della persona di chiedere la cancellazione di determinate informazioni al potere di impedirne la stessa raccolta; al divieto di conservare i dati personali oltre un tempo determinato e di trasmetterli a specifiche categorie di persone (i datori di lavoro, ad esempio). E si prospettano ipotesi radicali: la cancellazione della gran parte delle informazioni dopo dieci anni, una tabula rasa che consentirebbe a ciascuno di ripartire liberamente da zero e riscatterebbe la persona dalla servitù d’essere considerata come semplice produttore d’informazioni.
Ma il punto chiave sta nel rapporto tra memoria individuale e memoria sociale. Può il diritto della persona di chiedere la cancellazione di alcuni dati trasformarsi in un diritto all’autorappresentazione, alla riscrittura stessa della storia, con l’eliminazione di tutto quel che contrasta con l’immagine che la persona vuol dare di sé? Così il diritto all’oblio può pericolosamente inclinare verso la falsificazione della realtà  e divenire strumento per limitare il diritto all’informazione, la libera ricerca storica, la necessaria trasparenza che deve accompagnare in primo luogo l’attività  politica. Il diritto all’oblio contro verità  e democrazia? O come inaccettabile tentativo di restaurare una privacy scomparsa come norma sociale, secondo l’interessata versione dei nuovi padroni del mondo che vogliono usare senza limiti tutti i dati raccolti?
Internet deve imparare a dimenticare, si è detto, anche per sfuggire al destino del Funes di Borges, condannato a tutto ricordare. La via di una memoria sociale selettiva, legata al rispetto dei fondamentali diritti della persona, può indirizzarci verso l’equilibrio necessario nel tempo della grande trasformazione tecnologica.


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