by Editore | 30 Gennaio 2012 8:23
Circondato da ex-ministri e sottosegretari di diverse amministrazioni, scienziati e banchieri, consiglieri del presidente Obama e di Mitt Romney (ma anche di Cameron e Sarkozy), potenziali candidati al premio Nobel, avrei preferito declinare l’invito per dedicarmi unicamente a ciò che conosco meglio, l’energia. Mi è stato spiegato, tuttavia, che a Harvard è consuetudine abbastanza diffusa chiedere agli esperti di un settore di dare il loro punto di vista su argomenti che non fanno parte del loro specifico expertise — se non indirettamente: in questo modo, spesso è possibile ricavare spaccati, spunti e indicazioni originali. Al di là di questo, la richiesta veniva da una persona troppo importante per poter dire di no. Così ho accettato.
Quando ho tenuto il mio seminario, il governo Monti si era da poco insediato e una luce si era accesa nell’atmosfera di tetra sfiducia verso l’Italia che dominava l’élite dell’establishment americano.
Forte di questa inversione di giudizio e senza nascondere gli aspetti più critici del nostro Paese, ho cercato di spiegare che l’Italia non era la Grecia, illustrandone i punti di forza materiali e immateriali. Tante delle cose che ho detto e continuato a ripetere nelle settimane successive hanno suscitato incredulità . I molti non economisti erano convinti che i miei dati sullo stock di ricchezza e indebitamento delle famiglie italiane fossero sbagliati, perché disegnavano un Paese troppo florido. Altri non credevano ai dati ufficiali della Banca d’Italia sull’evasione fiscale o a quelli della Corte dei Conti sulla «economia della corruzione», ritenendoli esagerati per un Paese occidentale — per quanto latino. Ben presto, mi sono reso conto che nessuno riusciva a capire come l’Italia avesse vissuto e continuasse a convivere con contraddizioni così estreme e apparentemente irriducibili da non sembrare vere. Soprattutto, nessuno riusciva a capire come l’opinione pubblica di una nazione economicamente e culturalmente avanzata avesse potuto permettere a una classe dirigente in gran parte impresentabile di perpetuarsi, dilagare e bloccare l’intero Paese, costringendolo a una lenta eutanasia. «L’Italia è un mistero» — ripetevano — «incapace di cambiare».
Lo stesso refrain è riaffiorato nel corso dei contatti che mi è capitato di avere con esponenti dell’amministrazione Obama, della parte avversa, di banchieri e fondi.
Questo giudizio negativo stride con il grande apprezzamento, la fiducia e il rispetto incondizionati per Monti e altri italiani di rango — primi fra tutti il Presidente Napolitano e Mario Draghi — che ho registrato in tutti i miei interlocutori. Tuttavia, per loro i Napolitano, i Monti, i Draghi sono esponenti nobili di una razza minoritaria nel Paese. Una razza ineluttabilmente costretta a vivere in bilico su un paradosso: indispensabile per evitare il disastro, ma destinata a essere divorata nel caso abbia troppo successo.
Divorata da chi? Dal ventre oscuro e immarcescibile dell’establishment peggiore, capace di andare sott’acqua per poi riemergere una volta passata la tempesta, di suscitare i sentimenti peggiori dell’elettorato toccando le paure, le idiosincrasie, e le corde più reazionarie delle sue viscere, di mantenere le proprie posizioni in ogni snodo piccolo e grande del potere. Quell’establishment — è la percezione degli americani che contano — non permetterà a Monti di durare a lungo: prima o poi si riapproprierà di ciò che ritiene il suo spazio naturale, e tutto tornerà come prima.
La sfiducia nel sistema Italia, così, prevale sulla fiducia nella sua razza più nobile ma minoritaria, invisa a quel potere che è l’unica chiave capace di spiegare il perdurare dei misteri, delle contraddizioni e delle miserie del nostro Paese.
Harvard Kennedy School
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